l'Investitore Accorto

Per capire i mercati finanziari e imparare a investire dai grandi maestri

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L’incredibile rally dei titoli finanziari

In sei sedute l’indice S&P/Mib ha recuperato poco meno del 10%, ossia circa 2,500 punti, trascinato al rialzo da un poderoso rimbalzo del settore finanziario partito da Wall Street.

Che credibilità ha questo rally? Purtroppo, in una parola, nessuna.

Dico purtroppo perché sarebbe più rassicurante poter dire che l’azione dei mercati azionari è stata il riflesso delle libere decisioni assunte collettivamente dagli investitori. E che tali giudizi si sono correttamente formati sulla base, tra l’altro, delle informazioni rese pubbliche dalle società quotate che, a Wall Street, stanno in questi giorni diffondendo i risultati del secondo trimestre.

Le cose, invece, non stanno così.

Il rally, infatti, è stato innescato dall’improvvisa, inattesa decisione della SEC, l’organo americano di controllo della Borsa, di imporre limiti alle vendite allo scoperto (short selling) su 19 titoli finanziari, tra cui tutte le banche d’investimento e i due giganti in crisi del credito mobiliare, Fannie Mae e Freddie Mac.

La conseguenza è stata un’enorme ondata di ricoperture che a Wall Street ha lanciato in orbita tutto il settore finanziario.

Questa iniziale esplosione è stata poi alimentata dal carburante fornito dai risultati trimestrali di alcune banche, come Citigroup, Bank of America, JP Morgan Chase e Wells Fargo, superiori – in apparenza – alle attese, e dal sollievo generato dall’annuncio da parte del Tesoro americano di un piano di salvataggio per i due giganti dai piedi d’argilla, Fannie e Freddie, ormai al limite dell’insolvenza.

Il risultato? Nelle cinque sedute tra il 16 e il 22 luglio l’S&P 500 Financials ha fatto un balzo del 28%, un record. Dal 1989, quando furono introdotti gli indici settoriali dell’S&P 500, una performance del genere nell’arco di una sola settimana non era mai stata registrata.

Naturalmente, un bear market azionario è sgradito a molti: governi, banche, media, e la grande massa dei risparmiatori in generale. Solo una minoranza di investitori è in grado di trarne profitto. Insofferente più di tutti, con le elezioni presidenziali alle porte, è l’amministrazione Bush. Il rimbalzo del settore finanziario è stato così accreditato, da molte voci interessate, come un segnale che il peggio probabilmente è passato.

L’idea che mi sono fatto è che le cose non stiano affatto così.

La genesi del rally, per cominciare dall’inizio, è stata uno sfregio alla nozione stessa di libero mercato. Come ha denunciato l’Economist, l’intervento della SEC è stato l’equivalente di un pugno sotto la cintura inferto niente meno che dall’arbitro nel corso di un incontro di pugilato. Un provvedimento ingiustificato, improvvisato, asimmetrico, incoerente – motivato con ogni evidenza dal solo intento di prestare soccorso ai titoli bancari più in difficoltà.

Nouriel Roubini, l’economista della Stern School of Business della New York University, ha rincarato la dose, dicendo che la SEC dovrebbe aprire un’inchiesta e avviare un’azione legale contro se stessa per manipolazione del mercato.

La continuazione del rally si è poi nutrita di una serie di trimestrali sulla cui affidabilità è ragionevole essere scettici. Prendiamo ad esempio Wells Fargo, una delle grandi banche che più ha infiammato gli animi annunciando, il 16 luglio, un utile per azione di 0,53 dollari, tre centesimi superiore alle attese degli analisti.

Come spiega bene un articolo di HousingWire.com, il portafoglio da 84 miliardi di dollari di home equity loan (prestiti con ipoteca sulla casa) di Wells Fargo – per metà concessi in California e Florida, due degli stati americani più colpiti dalla crisi – ha subito nel secondo trimestre un pesante aumento delle sofferenze. Le perdite messe a bilancio sono però diminuite, addirittura di 104 milioni di dollari per i soli prestiti second lien – un 11% di prestiti subordinati e dunque particolarmente a rischio.

Il mercato immobiliare peggiora, la qualità del credito peggiora, le sofferenze si impennano, ma il bilancio migliora. Com’è possibile? Il motivo è che ai primi di aprile Wells Fargo ha deciso – sottovoce – di modificare il termine oltre il quale il mancato pagamento della rata di un prestito viene contabilizzato tra le perdite, estendendolo da 120 a 180 giorni.

Per questo trimestre, almeno, la cosmesi è riuscita. Un bel po’ di passività sono state nascoste sotto il tappeto, rinviate al futuro. E una trimestrale che avrebbe dovuto probabilmente chiudersi con un utile per azione di almeno cinque centesimi sotto le attese, già abbondantemente riviste al ribasso, si è invece spinta tre centesimi sopra. Il titolo, anziché sprofondare, nel giro di pochi istanti dall’annuncio dei risultati ha fatto un balzo del 20% all’insù.

Roubini, nel suo blog, ha denunciato svariati altri modi in cui le banche americane stanno “manipolando” i bilanci, a suo dire sotto lo sguardo tollerante delle autorità di controllo, dalla Federal Reserve alla SEC.

Una pratica che si sta diffondendo, e che Roubini dice di aver appreso dalle ammissioni di “insider”, è che l’entità delle svalutazioni di asset da mettere a bilancio viene decisa a priori. I conti vengono poi aggiustati di conseguenza. Non si tratta più, nota Roubini, del tradizionale earnings smoothing, e cioè della consolidata routine per cui i bilanci vengono un po’ “ritoccati” con l’obiettivo di stabilizzare gli utili da un trimestre all’altro.

“Questa – scrive Roubini – è attiva manipolazione e falsificazione dei risultati mirata a offuscare ancor di più il vero stato delle istituzioni finanziarie. Questo lavoro di oscuramento è attivamente spalleggiato dalla SEC, dalla Fed e dalle altre autorità che sono ormai in uno stadio di gestione della crisi in cui l’obiettivo è evitare a ogni costo qualsiasi incidente che possa scatenare il crollo del sistema. La conseguenza è che molte di queste trimestrali valgono meno della carta su cui sono scritte.”

D’altra parte, pensare che il peggio sia ormai alle spalle per il settore finanziario americano – così come, peraltro, per quello europeo – è poco realistico se solo ci si attiene a poche, semplici e basilari considerazioni.

E’ vero che la Fed, abbattendo i Fed funds dal 5,25% al 2%, ha ridotto i costi di finanziamento delle banche. Ma per il resto il contesto non ha fatto in questi mesi che peggiorare e le prospettive si sono fatte più cupe.

Crolla il mercato della casa, peggiora la congiuntura americana, rallentano i mercati emergenti e l’Europa è a un passo dalla recessione. I dati che mostrano come lo scoppio della più grande bolla immobiliare della storia, dopo lunghi mesi di incubazione, stia dando vita (complice anche l’ascesa dei prezzi energetici) a una recessione economica su scala globale sono facili da riassumere. Eccoli:

a) Secondo l’indice S&P/ Case-Shiller (ripreso nel grafico qui sotto da un articolo di Bill Gross), i prezzi delle case in America, dai massimi del 2006, sono scesi del 18% ma la caduta, di recente, è andata accelerando e i contratti future non prevedono che si arresti prima del 2010, alla fine di un tonfo che nel complesso potrebbe toccare il 30%.

b) L’economia Usa, se non è già entrata in recessione nei primi mesi dell’anno, è prossima a farlo. L’avvitamento della congiuntura che, in un anno elettorale, le autorità stanno tentando di combattere con tutti i mezzi – tra cui il condizionamento psicologico delle aspettative – avanza inesorabile. Lo dicono molti dati, ma tra i più chiari e affidabili ci sono il Leading Economic Indicator curato dal Conference Board (da noi noto come superindice economico) e il Leading Index dell’ECRI, uno dei più prestigiosi centri privati di ricerca.

L’uno e l’altro hanno correttamente predetto le recessioni degli ultimi decenni (le fasce in grigio nei grafici che seguono, il primo tratto da Northern Trust e il secondo dal blog The Big Picture di Barry Ritholtz). Da qualche mese preannunciano, con crescente intensità, l’arrivo di un nuovo periodo di contrazione dell’attività economica.

c) La crisi dei mercati immobiliari, quella del credito, quella dell’economia Usa, unite agli alti prezzi dell’energia, stanno trascinando in recessione l’economia globale. Chi sperava in un cosiddetto decoupling, e cioè nella capacità del resto del mondo di affrancarsi dal paese guida (l’America), sarà probabilmente smentito. Questo almeno è il messaggio che viene dal World Leading Economic Index dell’OCSE (tratto qui dall’ultima analisi trimestrale di Hoisington Management), il più affidabile barometro dell’andamento della congiuntura mondiale, che da qualche mese si è messo ad annunciare tempesta.

I grafici che ho riportato raccontano tutti la stessa storia: il peggio, purtroppo, deve ancora arrivare.

Le stime che circolano sui costi della crisi immobiliare per il sistema finanziario americano – e a cui oggi ha dato credito anche Bill Gross di PIMCO, il più grande gestore obbligazionario al mondo – parlano di almeno un migliaio di miliardi di dollari.

I mutui classificabili come asset rischiosi, ha scritto Gross, ammontano a 5mila miliardi di dollari. Ci sono circa 25 milioni di case acquistate con mutuo a partire dal 2004 che sono ormai in una situazione di negative equity: ai prezzi correnti valgono cioè meno del debito che è stato contratto per acquistarle. Per i compratori è una condizione in cui sono forti gli incentivi a dichiararsi insolventi.

Le perdite complessive, se al mercato immobiliare si sommano il credito al consumo e quello alle aziende, saranno comprese, a giudizio di Roubini, tra mille e duemila miliardi di dollari. Le svalutazioni messe finora a bilancio sono nell’ordine dei 400 milioni di dollari. La crisi, insomma, non ha ancora raggiunto la sua fase più acuta. Il fallimento della banca californiana IndyMac, la scorsa settimana, con perdite a carico del bilancio pubblico tra i 4 e gli 8 miliardi di dollari, è solo il primo di una serie che si preannuncia piuttosto lunga.

L’incredibile rally dei mercati azionari, penso, non andrà lontano. Vedremo nuovi minimi.

P.S.: Siccome disperarsi non è mai la reazione migliore, vorrei chiudere con un messaggio consolatorio: godetevi (chi può, purtroppo il video è in inglese) sette minuti di satira formidabile sulla rara incompetenza (per gli Usa, noi in Italia siamo abituati peggio) di cui ha dato prova l’amministrazione Bush. Il video che segue – “It’s the stupid economy” – è tratto da una recente puntata del Daily Show di Jon Stewart (nella foto in alto). E’ una delle cose più esilaranti in cui mi sia imbattuto da un po’ di tempo in qua. Buona visione.

It’s the stupid economy

Informazione, rumore e scelte d’investimento

Uno degli insidiosi paradossi con cui gli investitori, piccoli e grandi, hanno a che fare è che l’abbondanza di informazioni finanziarie complica anziché agevolare le scelte d’investimento. Il pensiero mi è tornato alla mente mentre seguivo l’andamento delle Borse nelle due sessioni conclusive della scorsa settimana, quando gli indici sono stati spinti – stando alle cronache – prima bruscamente al rialzo e poi ancor più pesantemente al ribasso da una serie di dati sull’occupazione americana in apparenza contrastanti. Continua a leggere…

Materie prime, il bull market si ferma in Cina?

Sono convinto, come insegna Warren Buffett, che i mercati finanziari non sono davvero prevedibili anche se, come vedremo ora a proposito delle materie prime, ci sono nessi che non sono casuali e la cui comprensione può essere d’aiuto a un investitore. Chi pensa però di poter formulare puntuali predizioni o è un ingenuo o è un imbonitore. Quando leggo, come mi è capitato in questi giorni, che Morgan Stanley vede il petrolio a 150 dollari al barile o che l’analista Arjun Murti di Goldman Sachs ne stima probabile l’ascesa a 150-200 dollari in un arco di tempo tra 6 e 24 mesi, la mia reazione è un sorriso.

Le materie prime sono l’unico mercato che continua a dare soddisfazioni alle banche d’investimento. Si capisce che non vogliano essere loro a spegnere l’incendio della speculazione. Continua a leggere…

Food for thought

Quelli che seguono sono i link a un po’ di articoli che ho letto nel corso dell’ultima settimana e che mi sembra interessante proporre ai lettori del blog. Visto che i testi non sono in italiano, ho aggiunto dei brevi sommari. Il tono complessivo, come si vedrà, è improntato a un certo pessimismo. Il collasso del mercato Usa della casa, il boom dei prezzi del petrolio e delle materie prime in genere e i pericoli d’inflazione, in particolare nei paesi emergenti, sono i motivi di preoccupazione in primo piano.

Nel campo degli ottimisti resta schierata la gran parte degli strategist delle banche d’investimento, sull’affidabilità delle cui previsioni, purtroppo, non c’è da farsi soverchie illusioni. Continua a leggere…

Mercato Usa della casa e prospettive del ciclo II

Nella prima parte di questo articolo ho riferito il parere di Martin Feldstein secondo cui i rischi di recessione negli Usa sono in aumento e non in diminuzione come sembra invece pensare la maggioranza degli investitori. Ho anche scritto come per Feldstein è il mercato della casa che continua a porre i problemi più gravi.

I consistenti cali dei prezzi dell’ultimo anno, che non hanno precedenti nella storia americana del dopoguerra, stanno facendo lievitare il numero di famiglie alle prese con debiti verso le banche superiori al valore degli immobili ipotecati (una condizione detta di negative equity).

C’è il rischio che si inasprisca sempre più la spirale perversa tra cali dei prezzi e insolvenze sui mutui con un impatto tale sulla ricchezza delle famiglie e il patrimonio delle banche da rendere possibile – nelle parole di Feldstein – una delle “recessioni più severe e durature degli ultimi svariati decenni.” Continua a leggere…

Mercato Usa della casa e prospettive del ciclo

La scorsa settimana, nel post Economia Usa, i rischi di recessione restano alti, mi sono sbilanciato esprimendo una serie di valutazioni in contrasto sia con il consenso di mercato che con le recenti prese di posizione della Federal Reserve.

Prendendo spunto dalle analisi degli economisti di Northern Trust, criticavo le interpretazioni, a mio avviso troppo ottimistiche, che sono state date di alcuni importanti set di statistiche, come quelle sul Pil del primo trimestre e sull’occupazione di aprile. Concludevo così: “L’economia Usa, nonostante il sostegno che viene dal dollaro debole e da una domanda estera ancora tonica, resta un malato in via di peggioramento”.

Vorrei ora aggiungere, a quanto lì esposto, il sostegno di un’altra fonte tra le più autorevoli – Martin Feldstein (nella foto sopra) – e un’analisi più circostanziata del mercato della casa americano, che resta d’importanza vitale – oggi come un anno fa quando fece da innesco alla crisi – nel determinare l’evoluzione della congiuntura. Continua a leggere…

Tra bear market e Bear Stearns: dove va la Borsa?

“Quelli che non sanno ricordare il passato sono condannati a ripeterlo”. Tra gli investitori questo aforisma del filosofo George Santayana è tanto noto quanto, in pratica, disatteso. Soprattutto quando i mercati danno soddisfazione, perché salgono – come sta di nuovo accadendo dal 15 marzo, quando la Federal Reserve ha orchestrato il salvataggio della banca d’affari Bear Stearns – la capacità di prendere le distanze dall’attualità e “ricordare il passato” diventa una virtù rara.

Che le cose stiano così è tornato a farmelo presente, in modo un po’ scanzonato, l’ultimo commento settimanale di John Hussman, uno dei migliori gestori e analisti americani. Continua a leggere…

Economia Usa, i rischi di recessione restano alti

Sarà per il rally delle Borse, risalite del 15% dai minimi di marzo facendo segnare ad aprile il miglior risultato mensile dal 2003, sarà per un po’ di dati macroeconomici dalle apparenze rassicuranti, ma in queste due ultime settimane si è diffuso un ottimismo sulle prospettive dell’economia americana che mi pare ingiustificato.

Un segno della ritrovata fiducia ce lo dà il contratto US.recession.08, scambiato sull’information market di Intrade. Si tratta di uno strumento che consente di scommettere sulle probabilità di recessione negli Usa nel corso del 2008.

Come mostra il grafico che segue, negli ultimi 15 giorni – per l’esattezza a partire dal 24 aprile – il contratto è sceso bruscamente sotto la soglia del 55%, che aveva segnato il limite inferiore di una forchetta compresa tra il 55% e il 75% entro cui le aspettative degli scommettitori erano andate stabilizzandosi dall’inizio dell’anno. Continua a leggere…

Petrolio, materie prime: analisi del bull market II

Nella prima parte di questa analisi abbiamo visto come il petrolio sia entrato, quasi di soppiatto nel 1999 e più tumultuosamente dal 2004, in un bull market paragonabile a quello degli anni ’70. L’ascesa delle quotazioni dai 10 dollari a barile di un decennio fa agli oltre 110 dollari di questi giorni (un nuovo massimo superiore, in termini reali, al precedente picco storico dell’aprile 1980) è solo in parte, come ho mostrato, un riflesso della crisi del dollaro. Ci sono, dunque, motivi più fondamentali. Quali? Continua a leggere…

Petrolio e materie prime: analisi del bull market

A tre decenni dalla crisi degli anni ’70, ci troviamo di nuovo a parlare, con quotidiano allarme, delle quotazioni del petrolio. Il superamento della soglia dei 100 dollari a barile ha creato comprensibile ansia. Quando finirà la corsa al rialzo? C’è il rischio che causi una recessione? Potrebbe riaccendere l’inflazione? E se le quotazioni non smettono di salire, vuol forse dire che il petrolio comincia a esaurirsi prima che siamo in grado di sostituirlo con un’altra fonte energetica? Infine, se come consumatori l’alternativa al pagare conti salati è per ora solo quella dell’”austerità”, come investitori c’è ancora spazio per fare profitti, con questo impetuoso bull market del petrolio e delle materie prime in generale?

Per non appesantire il discorso, prenderò in esame queste e altre questioni in una serie di post. Cercherò prima di sgombrare il campo da un paio di problemi introduttivi. Poi analizzerò le cose dal punto di vista economico. Infine, indosserò i panni dell’investitore.

Uno sguardo di lungo periodo

Se ci si vuole chiarire un po’ le idee, conviene fare un passo indietro rispetto alla cronaca concitata dell’attualità e partire da qualche grafico che illustri l’andamento del greggio nel lungo periodo.

Il primo, qui sotto, tratto da Moore Research Center, è un grafico mensile delle quotazioni in dollari del greggio di riferimento americano (il West Texas Intermediate o WTI) negli ultimi 25 anni.


Si vede come per quasi un quindicennio, se si esclude l’improvvisa impennata dell’estate 1990, conseguente all’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq, il prezzo abbia ristagnato in una forchetta tra 10 e 25 dollari al barile.

Poi, dal 1999, ha preso avvio l’attuale bull market. Prima un po’ in sordina, e poi con sempre maggiore intensità, tanto da far assumere al grafico un caratteristico profilo iperbolico. E’ stata rotta la soglia dei 40 dollari, nel 2004, poi quella dei 75 dollari, lo scorso autunno, e ora – parrebbe – anche quella dei 100 dollari.

Naturalmente, un grafico di lungo periodo può essere d’aiuto a impostare un’analisi se si evitano alcune illusioni ottiche. La prima riguarda l’impatto dell’inflazione.

Come si fa a capire fino a che punto le variazioni nel prezzo del greggio hanno a che fare con fattori propri di quel mercato (primo tra tutti il variare della domanda e dell’offerta) o riflettono invece la dinamica del livello generale dei prezzi? Bisogna depurare i prezzi del petrolio dagli effetti dell’inflazione, ricavandone così le sue quotazioni reali.

E’, ad esempio, quello che ha fatto Paul Krugman in questo grafico apparso qualche giorno fa sul suo blog, The Conscience of a Liberal:


Assumendo come base il prezzo in dollari del febbraio 2008, si nota come il greggio ha avuto, nel dopoguerra, due lunghe fasi di quotazioni basse e relativamente stabili – la prima fino al 1973, la seconda dal 1986 al 1999 – e due fasi di esplosivi rialzi – dalla prima crisi energetica del 1973 fino al picco storico dell’aprile 1980, e a partire dall’inizio di questo decennio fino a oggi.

In termini reali, i prezzi sono ormai tornati ai massimi di 28 anni fa.

Il secondo effetto distorsivo di cui bisogna tenere conto è la valuta. Il petrolio è quotato in dollari. E la moneta Usa, dal 2002, è entrata in un trend ribassista che le ha fatto toccare di recente, nei confronti delle altre principali monete, dei nuovi minimi.

Per capire quanta parte del rialzo delle quotazioni del greggio è conseguenza della debolezza del dollaro bisogna convertire il prezzo in altre valute, a partire dall’euro – la vera moneta forte degli ultimi anni.

E’ quanto ha fatto, ad esempio, la Federal Reserve di Dallas nella sua analisi del mercato dell’energia del trimestre scorso.


Fissando uguale a 100 il prezzo del barile di WTI nel gennaio 2002, il grafico mostra come da allora fino al terzo trimestre del 2007 la quotazione in dollari sia più che quadruplicata, mentre quella in euro è aumentata, più o meno, di due volte e mezza.

In una certa misura, l’apprezzamento del greggio è dunque un riflesso del deprezzamento del dollaro. Ma sotto c’è ben altro, perché il rally dell’oro nero risulta confermato anche se le sue quotazioni vengono espresse, anziché in dollari, in una valuta “forte”.

Cause del rally e prospettive

Nel prossimo post prenderò in esame alcune delle cause più evidenti della continua corsa del petrolio, che sono in parte di mercato (speculative), in parte geopolitiche, in parte legate a squilibri per lo più di breve periodo (l’andamento delle scorte), ma in ultima istanza fondate sulle tensioni di medio-lungo periodo generate da una domanda in crescita cui non è corrisposto, negli ultimi anni, un pari aumento della capacità produttiva (come già scrivevo a ottobre nel post Perché il prezzo del petrolio sale?).

Finirò per chiedermi se i problemi dal lato dell’offerta siano il frutto di un lungo periodo di inadeguati investimenti, o di una mutata strategia da parte dei paesi produttori, o costituiscano invece un più lugubre segnale d’allarme sul fatto che l’età del petrolio inizia a volgere al termine prima che l’umanità abbia trovato delle valide alternative energetiche.

Vedremo quali indicazioni se ne possono trarre per il futuro a medio termine. Da qui passerò poi a trattare le prospettive del mercato del petrolio e delle materie prime più in generale dal punto di vista dell’investitore.

Due caratteristiche, in particolare, dovrebbero risultare di notevole interesse:

a) le materie prime tendono a performare bene quando i mercati azionari vanno male e le economie entrano in recessione (sono dunque un asset che consente di migliorare il grado di diversificazione dei portafogli);

b) le materie prime tendono a seguire andamenti strettamente correlati tra loro e a tracciare cicli molto lunghi: nell’ultimo secolo ci sono stati altri tre bull market (1906-1923, 1933-1953, 1968-1982), la cui durata media è stata di 17 anni.

Se il passato si ripeterà (un se su cui è sempre raccomandabile nutrire dubbi), l’attuale bull market potrebbe insomma essere appena a metà del suo corso.

Al prossimo post, dunque.

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