l'Investitore Accorto

Per capire i mercati finanziari e imparare a investire dai grandi maestri

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Previsioni cicliche e strategie del “re dei bond”

PIMCO, il gruppo fondato e guidato da Bill Gross, “il re dei bond” (nella foto), ha aggiornato come fa all’inizio di ogni trimestre le sue previsioni sulla congiuntura e le linee guida della strategia d’investimento. La tesi di fondo è che l’economia americana riuscirà, almeno nel prossimo anno, a evitare la recessione grazie all’intervento della Federal Reserve e al complessivo stato di salute dell’economia mondiale.

I tassi a breve dovrebbero scendere sotto il 4% (dall’attuale 4,75%), consentendo un soft landing, e cioè un atterraggio morbido verso tassi di crescita del Pil modesti, attorno cioè all’1-2%, ma non negativi.

Il raffreddamento dell’economia Usa, frenata dalla crisi del mercato della casa e dall’irrigidimento delle politiche di credito da parte del sistema bancario, si trasferirà anche al resto del globo, senza risparmiare né le economie sviluppate dell’Europa e del Giappone né quelle emergenti dell’Asia e dell’America Latina, nel complesso ancora troppo dipendenti dalla domanda esterna per riuscire a ignorare gli sviluppi in America.

Tuttavia, la condizione di forza dei bilanci pubblici di molti paesi emergenti consentirà loro di fare ricorso a politiche fiscali più espansive in modo da ovviare al prevedibile indebolimento delle esportazioni.

Una generale moderazione dei tassi di crescita avrà benefici effetti sull’inflazione, contribuendo a tenere sotto controllo le pressioni generate dalla corsa dei prezzi delle materie prime.

“Soft landing with modest disinflation”, e cioè atterraggio morbido con modesta disinflazione, è dunque l’idea di fondo.

La strategia d’investimento

Da qui seguono le linee guida della strategia d’investimento, così riassumibili:

a) La discesa dei tassi controllati dalle banche centrali, negli Usa ma anche in Gran Bretagna, porterà a curve dei rendimenti più ripide (curve steepening), che PIMCO intende sfruttare puntando soprattutto sul previsto apprezzamento dei titoli a breve termine.

b) Il rapido e generalizzato allargamento dei credit spread, nel corso degli ultimi mesi, ha creato opportunità nel mercato dei corporate bond, che, per essere correttamente identificate, esigeranno però un’attenta analisi del merito di credito dei singoli titoli. PIMCO ritiene che, in modo selettivo, condizioni di sottovalutazione si siano manifestate nei settori finanziario e dell’auto.

c) Nel mercato delle valute, è prevedibile che il dollaro rimanga debole, per effetto delle politiche reflative che la Federal Reserve sarà costretta a seguire. A ciò farà da contrasto la continua forza di valute come il peso messicano, il rublo russo e il real brasiliano, sostenute da ottimi fondamentali economici e da bilance commerciali in forte avanzo.

d) La salute economica di paesi come Messico, Brasile e Russia, oltre che nella forza delle valute, si dovrebbe tradurre anche in ulteriori miglioramenti del rating del debito pubblico. PIMCO prevede di continuare a sovrappesare l’esposizione verso i titoli obbligazionari emessi da questi paesi in valuta locale: un modo per sommare al previsto apprezzamento delle valute quello derivante dal maggiore merito di credito.

e) La previsione di un’inflazione in moderata attenuazione renderà meno interessanti i titoli obbligazionari indicizzati, come i Tips americani, nei confronti dei quali PIMCO prevede di mantenere un’allocazione invariata, a livelli modesti: si tratta, in ogni caso, di un’utile hedge contro improvvise ed impreviste impennate nella dinamica dei prezzi.

Con circa 700 miliardi di dollari di asset in gestione, PIMCO è uno dei principali attori nel mercato globale del reddito fisso. Le sue sono dunque opinioni che pesano e che, anche quando non sono condivise, è saggio tenere in considerazione.

Mini-crollo a Wall Street e prospettive di Borsa

Scrivevo una decina di giorni fa, nel post L’analisi tecnica svela un rally di Borsa sospetto, che la corsa dei mercati azionari dai minimi di agosto nascondeva molta fragilità. “Volume e ampiezza ci raccontano storie simili,” notavo allora. “Il rally dell’ultimo mese e mezzo appare sospetto, perché ha avuto scarsa partecipazione di investitori (bassi volumi) e di titoli (linea Advance-Decline divergente rispetto ai prezzi)”.

E concludevo:

“E’ probabile che molti investitori abbiano deciso di stare alla finestra in attesa delle trimestrali del terzo trimestre […]. In ogni caso, la conclusione da trarre, per ora, è che di questo rally, e della grancassa mediatica che ha salutato i nuovi massimi di Wall Street, è giusto essere scettici.”

Ci troviamo ora a fare i conti con il mini-crollo di venerdì, quando tutti i principali indici americani hanno lasciato sul tappeto, in poche ore, un cospicuo 2,6%.

Le cause dell’ondata di vendite

La concomitanza con il G-7 e con il ventesimo anniversario del drammatico crollo (-22,6%) dell’indice Dow Jones il 19 ottobre 1987, giorno rimasto nella storia dei mercati con il fosco nome di Black Monday, hanno permesso di confondere più del solito le acque. “Il G-7 pessimista scuote Wall Street,” ha titolato ieri, ad esempio, Il Sole-24 Ore.

Ma né il G-7, né le ricorrenze, c’entrano qualcosa. Wall Street è troppo pratica e troppo calata nel presente per farsi condizionare, più di tanto, dal remoto passato o dai conciliaboli, spesso senza conseguenze, dei Sette Grandi.

Quello che invece è accaduto è che i deludenti bilanci delle aziende hanno fatto riaffiorare gli spettri di agosto, con l’aggiunta di più concreti timori che i dissesti dei mercati immobiliare e del credito stiano avendo ampie e negative conseguenze sull’economia reale.

Alla fragilità tecnica del rally si sono insomma aggiunte nuove riserve sulla salute dei fondamentali. E il mercato ha bruscamente invertito rotta.

La parola a due grandi analisti

Per scrutare ora un po’ nel futuro, tenendo conto sia degli aspetti tecnici che fondamentali, vorrei dare la parola a due dei miei analisti preferiti: Brett Steenbarger, per la parte tecnica, e Paul Kasriel per la parte macro.

In un post apparso ieri sul suo blog TraderFeed, Steenbarger si concentra sull’andamento del Russell 2000, l’indice delle small cap Usa, e sui nuovi massimi e nuovi minimi a 52 settimane (New High New Low, per una spiegazione vedi qui) fatti segnare dai titoli del NYSE.

Riproduco qui il suo grafico:

Due cose appaiono evidenti:

a) le small cap, nel corso degli ultimi mesi, non hanno avuto la forza di seguire le large cap verso nuovi massimi. E’ dalla fine del 2006 che sono intrappolate in un trading range.

b) i rally di quest’anno sono stati caratterizzati da una partecipazione via via più esigua di titoli, mentre le discese degli indici hanno visto espandersi il numero di azioni che segnavano nuovi minimi (vedi numeri in blu nel grafico). L’indicatore New High New Low, con le sue divergenze rispetto agli indici di prezzo, conferma dunque le fragilità di cui avevo già parlato una decina di giorni fa.

Cosa aggiunge Steenbarger? E’ probabile che gli indici vadano ora a ritestare i minimi di agosto. Se questo accadrà con un’ulteriore espansione del numero di new low, i supporti potrebbero cedere segnalando l’inizio di un bear market.

Un mercato ricco di contrasti

Al momento, la situazione resta ambigua. Ci sono settori del mercato, come i finanziari o le costruzioni di case, che in un bear market ci sono già. Ma altri settori, come energetici e tecnologici, si muovono ancora in un trend rialzista.

Un segmento da seguire con particolare attenzione sarà quello dei beni di consumo. Se scenderanno verso nuovi minimi, rompendo i supporti di agosto, vorrà dire – nota Steenbarger – che la debolezza del mercato della casa americano sta creando condizioni recessive nel resto dell’economia.

L’impressione di Steenbarger è che i supporti reggeranno, grazie ai tassi di crescita ancora attraenti delle large cap e alla liquidità di cui le banche centrali stanno inondando i mercati (in Usa la massa monetaria cresce a un tasso annualizzato del 24%, facilitando tra l’altro il continuo deprezzamento del dollaro, che si traduce in maggiori profitti per le imprese esportatrici).

“Ma il mio istinto si è già sbagliato in altre occasioni,” conclude Steenbarger con saggia umiltà. Per questo il suo consiglio è di continuare a monitorare con attenzione dei segnali oggettivi come le performance settoriali e la forza interna del mercato, in particolare attraverso l’indicatore New High New Low.

Le tante debolezze dell’economia più forte del mondo

Per la parte macro, vediamo cosa dice Paul Kasriel, chief economist di Northern Trust, nel suo ultimo esame mensile dello stato della congiuntura negli Usa.

Kasriel analizza diversi punti. Ecco i principali:

a) C’è chi trae conforto dall’andamento dell’occupazione e dalla crescita dei redditi. Ma Kasriel ricorda che si tratta, nella migliore delle ipotesi, di indicatori coincidenti e non anticipatori del ciclo. Ci dicono poco sulla possibilità che gli americani continuino in futuro a spendere quanto hanno speso nel recente passato.

I dati sulla disoccupazione, quelli più seguiti dal mercato, sono inaffidabili perché condizionati da un metodo di destagionalizzazione la cui correttezza suscita molte perplessità. Le statistiche sull’occupazione, che non sono soggette ad alcuna manipolazione, rivelano una crescente debolezza del mercato del lavoro (vedi grafico sotto).

b) Molti posti di lavoro, in questo ciclo, sono stati creati nel settore immobiliare e nelle parti connesse del settore finanziario. La crisi degli ultimi mesi, che è destinata a continuare, colpirà a fondo questo segmento del mercato del lavoro. E i primi segni già si vedono. Nel terzo trimestre, i licenziamenti nel settore finanziario sono cresciuti di 60mila unità rispetto a un anno fa.

c) La situazione finanziaria delle famiglie americane non è mai stata così precaria. Una percentuale record del reddito è spesa in consumi (vedi primo grafico sotto) e i livelli di indebitamento, in rapporto agli asset detenuti, sono esplosi a livelli mai visti prima, e ben peggiori di quelli, già preoccupanti, degli anni ’90 (vedi secondo grafico sotto).

d) il settore corporate è quello su cui gli ottimisti fanno affidamento, mettendone in rilievo la solidità finanziaria. I bilanci sono sì in buone condizioni, nota Kasriel, ma tanto i profitti (primo grafico sotto) che la spesa per investimenti (secondo grafico sotto) hanno cominciato da qualche trimestre a rallentare.

Se si esclude il settore finanziario, che ha contato moltissimo nell’ultimo ciclo espansivo, la crescita dei profitti è negativa dalla fine del 2006. Ma alla luce degli sviluppi degli ultimi mesi, quanto ci vorrà – si chiede Kasriel – perché anche gli utili del comparto finanziario comincino a contrarsi?

Quanto alla spesa per investimenti, che dovrebbe sostenere l’economia in una fase di crescente difficoltà dei consumatori, in questo ciclo non è mai stata molto dinamica, neanche quando i profitti erano in piena esplosione. E’ ragionevole attendersi che diventi sostenuta ora, quando i profitti iniziano a scarseggiare? Evidentemente no. E poi, nota Kasriel, più che i profitti la spesa per investimenti segue l’andamento dei consumi – che sono ancora più a rischio.

e) Al di là di tanti ragionamenti, c’è un’osservazione diretta che ci consente di dire che l’ottimismo di chi crede che sarà il settore corporate a salvare l’America dalla recessione non è condiviso da chi, nel settore corporate, opera in prima linea. Sono infatti i Ceo a dichiararsi sempre meno fiduciosi, come segnala l’indice di fiducia del Conference Board (vedi grafico sotto), sceso al punto più basso di questo ciclo, e a livelli storicamente depressi.

f) E l’economia mondiale? C’è chi pensa che Europa e Asia avranno la forza di sostenere il ciclo anche in presenza di un’America debole. Ma Kasriel ne dubita. Il raffreddamento della congiuntura si è negli Usa rapidamente fatto sentire sulle importazioni, in brusca frenata da qualche trimestre (vedi grafico sotto).

Gli effetti negativi si riverberano, già dall’inizio dell’anno, sia in Europa, dove la crescita è in rallentamento, sia in Giappone, dove addirittura il Pil nell’ultimo trimestre si è contratto (vedi grafico sotto).

La conclusione di Kasriel è che una recessione negli Usa non può ancora essere data per certa. Ma le probabilità che sia evitata non sono così alte come molti pensano.

Conclusione: un invito alla cautela

Tirando le fila delle analisi di Steenbarger e Kasriel, mi sembra ragionevole dire che il “mini-crollo” di venerdì ha cominciato a ristabilire un clima di mercato meno irrazionale e più rispondente ai fondamentali.

I nuovi massimi di molti indici azionari riflettevano scommesse speculative ed eccessi di ottimismo di una parte sempre meno rappresentativa dell’universo degli operatori. In questa fase, è giusto invece essere dubbiosi, incerti e anche un po’ timorosi.

E’ possibile, e forse probabile, che i mercati azionari debbano ritestare i minimi di agosto prima di decidere sul serio il loro corso futuro. Nessun investitore ha la sfera di cristallo. Ma non è difficile prevedere che instabilità e volatilità resteranno i tratti distintivi di un mercato che, nell’immediato futuro, potrà essere navigato con successo facendo uso, in primo luogo, di una maggiore cautela.

Mercati predittivi e recessione negli Usa

In tre diverse occasioni, nei post Il mercato delle idee, L’economia Usa e lo spettro della recessione, e Mercati azionari e rischi di recessione, mi sono sforzato di recente di analizzare quali siano le probabilità di un deterioramento della congiuntura economica negli Usa, attraverso quali indicatori possano essere meglio monitorate e infine quali potrebbero essere le conseguenze per gli investitori. Il tema è importante e vorrei aggiungere oggi qualche breve considerazione su un altro strumento utile e innovativo, che ogni accorto investitore può inserire nel suo arsenale: il contratto US.recession.08 scambiato sul prediction market di Intrade.

Secondo le scommesse dei partecipanti a questo mercato, i rischi di una recessione negli Usa nel 2008 sono valutati al momento al 49%. Come evidenzia il grafico qui sotto, dopo essere salite sino a lambire il 60% agli inizi di settembre, le probabilità sono gradualmente scese nell’ultimo mese, anche se restano elevate.

Il contratto di Intrade non è per ora scambiato in modo molto attivo. E questo è un limite. Ma l’aspetto incoraggiante è che i prediction market (mercati predittivi), nati in ambito universitario sul finire degli anni ’80 con l’Iowa Electronic Market, hanno dimostrato nel tempo una capacità di predire eventi economici, politici o di natura commerciale (come il successo di un nuovo film) di gran lunga superiore a quella dei migliori sondaggi d’opinione o alle stime dei cosiddetti “esperti”.

Come spiegano in un articolo per il Journal of Economic Perspectives Justin Wolfers e Eric Zitzewitz, due professori dell’Università di Stanford, l’efficacia dei prediction market si basa sulla capacità di aggregare le opinioni di partecipanti che, attraverso la motivazione del profitto, hanno incentivi per ricercare e scoprire informazioni e renderle pubbliche in modo veritiero (tutte considerazioni non applicabili ai tradizionali sondaggi d’opinione).

Che l’aggregazione di opinioni diverse, in progetti cooperativi o in mercati ben regolati che offrono i giusti incentivi, dia poi risultati molto più affidabili di quanto non sappiano realizzare, individualmente o a piccoli gruppi, i cosiddetti esperti, è una scoperta che in anni recenti ha avuto molte conferme, esposte magistralmente in libri importanti come “The Wisdom of Crowds” di James Suroviecki o “The difference” di Scott Page.

La prossima volta che vedete o leggete un qualche guru esprimersi eloquentemente sui rischi che corre o non corre l’economia americana affrettatevi insomma a consultare il prezzo del contratto scambiato sul prediction market di Intrade: è probabile che la sappia più lunga.

L’economia Usa e lo spettro della recessione

Ho scritto qualche giorno fa, nel post Mercati azionari e rischi di recessione, perché sia importante cercare di capire quanto sia grave il rallentamento in corso dell’economia americana. Due grafici, che riprendo dall’ottimo lavoro del team di macroeconomisti di Northern Trust, consentono di riassumere, nel modo più breve ed efficace, lo stato della congiuntura. Il mercato della casa, che è stato il vero driver dell’espansione Usa dell’ultimo quinquennio, è entrato in una profonda crisi. La bolla speculativa è scoppiata.

Le scorte di case invendute si sono impennate ai livelli più alti da 16 anni e continuano a crescere, esercitando ulteriori pressioni al ribasso sui prezzi, già inabissatisi dai tassi di crescita superiori al 15% di un biennio fa all’attuale -3,9% annuo (vedi grafico).

C’è chi pensa che i prezzi medi delle case siano destinati a flettere del 20-30% prima che il mercato tocchi il fondo. La crisi, cioè, è ancora agli inizi. Quello che è già evidente è che il collasso del settore immobiliare è il più grave dalla depressione degli anni ’30. Che questo basti a gettare la poderosa economia Usa nella recessione non è scontato. Per ora le famiglie americane hanno cominciato a stringere i cordoni della borsa ma non al punto da mandare in stallo la crescita.

L’indicatore che ci consente meglio di capirlo è il LEI (Index of Leading Economic Indicators), qui in Italia noto come superindice economico.

E’ un indicatore composito, che condensa l’andamento di dieci diversi parametri, reali e finanziari – dalla massa monetaria ai prezzi azionari, dai permessi di costruzione agli ordini manifatturieri e alle richieste di sussidi di disoccupazione.

Il LEI, ingiustamente sottovalutato dai media finanziari e anche da molti operatori di mercato, ha dimostrato nel tempo di saper correttamente predire, con circa un trimestre d’anticipo, l’evoluzione del Pil.

Come evidenzia il grafico qui sotto, il tasso di variazione annua del LEI (che è il dato significativo, e non si capisce perché i media finanziari si ostinino a puntare i riflettori sul più erratico dato mensile) ha anticipato, con l’unico falso segnale del 1966, tutte le recessioni (nel grafico sono le barre di colore grigio) degli ultimi 50 anni. Per ora, come osserva Asha Bangalore di Northern Trust, il LEI lascia presagire un periodo di bassa crescita, ma non il baratro della recessione.

Mercati azionari e rischi di recessione

Lo scoppio della bolla del mercato immobiliare americano sarà causa di una recessione economica? E’ questa, per gli investitori, la domanda più impellente. Perché questo interrogativo sia così importante lo spiega bene William Hester in una puntuale analisi pubblicata sul sito Hussmanfunds.com: il fatto è che la correzione dei corsi azionari iniziata questa estate avrà esiti molto diversi a seconda che l’economia Usa finisca in recessione o meno. In presenza di una recessione i bear market si sono storicamente dimostrati più profondi e prolungati.

L’analisi di Hester si apre con un aneddoto curioso che la dice lunga sulla difficoltà di prevedere (o anche soltanto di “vedere”) l’evoluzione del ciclo economico.

Nell’agosto del 2001 a Ben Bernanke, oggi capo della Federal Reserve, allora responsabile del dipartimento di economia dell’Università di Princeton, fu chiesto se lo scoppio della bolla dei titoli tecnologici stava spingendo gli Usa verso la recessione.

La sua risposta fu che, al di fuori del settore tecnologico, l’economia Usa appariva ancora discretamente in salute e che le riduzioni di tasse prontamente introdotte dal governo federale e i tagli dei tassi d’interesse disposti dalla Fed a partire dal gennaio precedente avrebbero con ogni probabilità scongiurato il peggio.

La verità, sconcertante, venne alla luce qualche mese dopo. L’economia Usa, nel 2001, attraversò una recessione relativamente breve che durò da marzo a novembre. Nell’agosto Bernanke escluse dunque un evento che non solo era già in corso, ma che era ormai prossimo più alla fine che non all’inizio.

Il bear market azionario del 2000-2002 fu, come chiunque ben ricorda, di una ferocia proporzionale agli eccessi di euforia che l’avevano preceduto. Ma, a parte quel suo carattere di straordinarietà, fu anche tipico del modo di reagire dei mercati al precipitare di una fase di contrazione economica.

I mercati azionari detestano le recessioni

Hester ha analizzato le flessioni dell’S&P 500 superiori al 15%. Dal 1950 a oggi sono 16, nove delle quali hanno coinciso con una recessione. Le differenze, tra i bear market con o senza contrazione economica, sono eclatanti. La durata media, che in assenza di recessione è di 215 giorni, più che raddoppia a 491 giorni in presenza di una recessione.

Anche la gravità nel calo dei corsi ne è condizionata. A parte l’eccezione del 1987, i bear market senza recessione hanno oscillato in una forchetta relativamente ristretta, con perdite tra il 15% e il 25%. Ma in presenza di una recessione gli esiti sono stati più imprevedibili e, in tre casi (1968, 1973, 2000), molto più gravi con crolli superiori al 35%.

Terza caratteristica interessante è il fatto che mentre in assenza di recessione i bear market tendono a prendere avvio da condizioni di sopravvalutazione, in presenza di una recessione sono indifferenti a ogni criterio valutativo.

In cinque casi su nove il crollo di mercato è avvenuto da multipli del picco ciclico degli utili inferiori a 15, e in tre casi addirittura da multipli inferiori a 10. Insomma, se una recessione è alle porte, il mercato è destinato a colare a picco anche quando è, in partenza, sottovalutato.

Percepire l’arrivo di una fase di contrazione economica è dunque tanto importante quanto problematico (Bernanke docet). Come ci si può orientare?

I segnali di recessione

A Hussman Funds hanno studiato bene la storia dei mercati e selezionato quattro indicatori che congiuntamente hanno sempre dato segnali d’allarme prima delle ultime cinque recessioni.

Non si tratta dei soliti dati macroeconomici, come vendite al dettaglio, produzione industriale o disoccupazione, che tanta eco hanno sulla stampa, tanta attenzione ricevono anche dagli operatori finanziari, ma la cui caratteristica di fondo è di essere in ritardo rispetto al ciclo, e dunque, in definitiva, inutili per un investitore.

Gli indicatori migliori, perché più sensibili e tempestivi, sono quelli prodotti dagli stessi mercati finanziari o frutto di affidabili sondaggi sulla fiducia. Il quartetto selezionato da Hussman Fund è il seguente:

1) Il differenziale (o spread) dei rendimenti tra obbligazioni societarie e titoli del Tesoro. Se la variazione a sei mesi è negativa (lo spread si allarga), si tratta di un segnale di allarme. Il significato di questo indicatore è facile da comprendere: un allargamento degli spread è una spia tempestiva che il rischio per gli utili, e in ultima istanza il rischio di insolvenza, è in aumento (com’è sempre il caso quando il ciclo volge dalla fase espansiva verso la recessione).

2) La curva dei rendimenti, e cioè il differenziale tra tassi decennali sui titoli del Tesoro e tassi a breve (3 mesi). Quando la curva si appiattisce, il segnale è di pericolo: vuol dire che i mercati si aspettano un rallentamento della crescita. L’allarme cresce quando la curva si inverte.

3) Il mercato azionario. Quando la variazione a sei mesi degli indici è negativa, il segnale è di pericolo. La Borsa è uno dei migliori indicatori anticipatori. Incorpora in tempo reale le informazioni disponibili alla totalità degli investitori e sa capire, prima e meglio di altri, se ci sono rischi per gli utili societari. Una correzione di breve respiro fa parte della fisiologia del mercato. Ma indici che ristagnino a livelli più bassi di sei mesi prima possono rivelare che il ciclo è a una svolta e la fase di espansione è ormai alle spalle.

4) L’indice ISM manifatturiero. E’ basato su un sondaggio ad ampio raggio tra i responsabili per gli acquisti delle aziende americane e si è dimostrato nel tempo uno dei più affidabili indicatori anticipatori, strettamente correlato all’andamento del PIL. Ogni recessione è stata preceduta da una sua discesa sotto la soglia critica di 50.

Come stanno oggi le cose, alla luce di questi quattro indicatori? Due sono negativi mentre altri due (mercato azionario e indice ISM) restano positivi.

I rischi, negli ultimi mesi, sono certamente aumentati ma non sembrano ancora tali da considerare una recessione l’esito per ora più probabile della crisi del mercato immobiliare. La vigilanza è d’obbligo, ma forse non è ancora il momento di fasciarsi la testa.

Il mercato delle idee: mutui, tassi e CDO

Nel mercato delle idee espongo idee altrui che trovo stimolanti. In vetrina, oggi, ci sono John Hussman che giudica sopravvalutati e ipercomprati i mercati azionari, Bill Gross che prevede il diffondersi delle insolvenze sui mutui con la Fed costretta a tagliare i tassi a breve ma gli spread in aumento, e poi Paul Kasriel al quale appare sempre più difficile che sia evitata una recessione negli Usa. Controcorrente resta l’opinione di Ken Fisher, che giudica il pessimismo dei media come uno dei migliori indicatori contrari.

Mercati azionari troppo rischiosi

John Hussman suona l’allarme, e non per la prima volta. Cosa caratterizza il mercato azionario di oggi (o quanto meno, il benchmark per eccellenza, e cioè l’S&P 500)? Il fatto di quotare a un multiplo del picco ciclico degli utili superiore a 18, di essere ai massimi dell’ultimo quadriennio, di trovarsi oltre l’8% sopra la media mobile esponenziale a 52 settimane, in un contesto di rendimenti obbligazionari in ascesa.

Ci sono stati altri momenti, negli ultimi 50 anni, in cui l’S&P 500 ha affrontato un’uguale costellazione di fattori?

Sì, è accaduto altre sette volte e con questi esiti: nel dicembre 1961, quando il mercato perse poi il 28% in 6 mesi; nel gennaio 1973, quando seguì un crollo del 48% in 20 mesi; nell’agosto 1987, quando la caduta fu del 34% in tre mesi; nel luglio 1998, quando l’indice scese del 18% in tre mesi; nel luglio 1999, quando la flessione fu del 12% in tre mesi; nel dicembre 1999, quando il calo fu del 9% in due mesi; e infine nel marzo 2000, quando, come molti ricorderanno, iniziò un bear market che portò l’S&P 500 a dimezzare il suo valore nell’arco di 30 mesi.

Osserva Hussman che a voler rendere il confronto più selettivo, si potrebbe aggiungere un indicatore di sentiment, e cioè il fatto che, al momento, meno del 20% dei consulenti d’investimento sondati da Investors’ Intelligence si dichiara bearish (pessimista). Con questo quinto elemento descrittivo, i precedenti si restringono al gennaio 1973 (-48%) e all’agosto 1987 (-34%).

Hussman mette in chiaro che la sua non è una previsione, ma una semplice constatazione: il mercato di oggi è così sopravvalutato e ipercomprato da offrire una combinazione di rischi e rendimenti attesi estremamente sfavorevole.

Crisi del mattone e contagio

Per qualche settimana il mercato ha temuto che le difficoltà dei due fondi di Bear Stearns, messi in ginocchio da scommesse sbagliate nell’opaco mondo dei CDO, dessero il via a un effetto domino tra altri hedge fund e i broker primari che prestano loro ingenti quantità di denaro. Poi un salvataggio da 3 miliardi di dollari messo rapidamente in atto da Bear Stearns ha calmato gli animi.

Ma Bill Gross si chiede se siano davvero questi i rischi da cui gli investitori si devono guardare. La sua risposta è che il vero contagio è in arrivo da un’altra direzione, e cioè dalla marea di mutui ipotecari, a tasso variabile e (sino a oggi) a condizioni di estremo favore, che in America saranno soggetti a revisione nei prossimi mesi.

Stima Bank of America che si tratta di 500 miliardi di dollari di mutui nel 2007 (con una revisione media al rialzo del tasso applicato stimata in 200 punti base) e di 700 miliardi nel 2008, di cui circa i tre quarti sono subprime, riguardano cioè debitori di bassa qualità.

La catena di eventi che si sta mettendo in moto, per Gross, è chiara: le insolvenze, che tra i mutui subprime sono già al 7% del totale, si moltiplicheranno; e la crisi si diffonderà ben oltre il mercato subprime.

I prezzi delle case scenderanno ancora. La disponibilità di credito diminuirà. Molti investitori in CDO che ora vantano rating di BBB o anche A si ritroveranno in mano dei pezzi di carta senza valore. E gli spread, anche nei mercati apparentemente meno correlati a quello americano, punteranno al rialzo mentre la liquidità eccessiva, di cui oggi tutti parlano, diventerà un ricordo.

E’ possibile che tutto questo prenda le forme di un semplice ritorno alla razionalità piuttosto che di una crisi globale. Ma Gross prevede che in ogni caso, per assicurarsi contro il montare dei rischi, la Federal Reserve comincerà nei prossimi sei mesi a tagliare i tassi a breve.

Esuberanza contenuta

Per Mark Hulbert, analista di lungo corso del sentiment del mercato (è dal 1980 che tiene sott’occhio le raccomandazioni di 160 newsletter finanziarie americane), gli umori non sono ancora quelli tipici di un top delle Borse.

L’ottimismo è tutt’altro che pervasivo, come rivela l’Hulbert Stock Newsletter Sentiment Index (HSNSI), un indicatore che condensa il sentiment di quegli autori di newsletter che praticano strategie di market timing di breve termine. L’HSNSI segnava 40,6% verso la fine della settimana scorsa, rispetto al 62,4% dei massimi di fine febbraio.

L’analisi contraria rivela dunque come manchi quell’“esuberanza irrazionale” che si manifesta tipicamente alla fine di un bull market. Le Borse, per Hulbert, possono ancora salire.

L’incoraggiante pessimismo dei media

Ken Fisher, che nel 2000 diventò bearish e dall’estate del 2002 tornò a essere bullish, resta molto ottimista sulle prospettive dei mercati azionari. E quali sono i motivi, che cita nel suo ultimo articolo per Forbes?

Intanto, il fatto che i media, a larga maggioranza, non hanno mai creduto al bull market iniziato quasi 5 anni fa e continuano a non crederci, ammonendo a ogni passo che gli utili record sono insostenibili e che il mercato, dall’alto dei nuovi massimi di questi giorni, è costoso. Finchè l’ultimo di questi “Orsi” non sarà diventato “Toro”, le Borse, per Fisher, continueranno a salire.

Quanto ai più fondamentali problemi valutativi, Fisher osserva che il mercato è molto meno costoso che nel 2000. I nuovi massimi recenti sono apparenti, dato che non tengono conto dell’inflazione. In termini reali l’S&P dovrebbe toccare quota 1800 prima di stabilire davvero un nuovo record. Inoltre, dal 2000, gli utili sono saliti del 57%. E per quanto i paventati rischi di insostenibilità possano anche essere fondati, non c’è segno che un’inversione del trend sia imminente.

Consumatori alle strette

Paul Kasriel di Northern Trust analizza la brusca decelerazione delle vendite al dettaglio negli Usa. In termini reali, il dato del secondo trimestre potrebbe segnare un calo del 4,9% annualizzato, dopo la crescita del 2,5% del primo trimestre.

Nel complesso, i consumi privati, nel trimestre da poco concluso, faticheranno a raggiungere un tasso di crescita dell’1%-1,5% rispetto all’ancora esuberante +4,2% del primo trimestre. Bisogna essere ciechi per non vedere che il collasso del mercato della casa sta “strangolando” le famiglie americane, sostiene Kasriel.

Né è sensato lasciarsi illudere dai segnali positivi che sono venuti di recente dai sondaggi sulla fiducia dei consumatori. Uno studio della Federal Reserve di Filadelfia ha infatti dimostrato che l’andamento del sentiment non ha alcuna valenza predittiva in relazione ai consumi.

Senza una riduzione dei tassi la recessione sarà difficile da scongiurare. E’ una conclusione a cui Kasriel si aspetta che arrivi anche la Federal Reserve, ma non prima dell’incontro del FOMCdel 31 ottobre, quando saranno diffuse anche le prime stime sul Pil del terzo trimestre. E quando potrebbe essere ormai troppo tardi per evitare il peggio.

Un sistema di disequilibrio instabile

Nouriel Roubini si interroga sulle prospettive del sistema di cambi semi-fissi, ancorati al dollaro, instaurato nell’ultimo decennio da molti paesi emergenti dell’Asia, e in parte responsabile per i crescenti squilibri delle bilance dei pagamenti a livello globale (il cosiddetto Bretton Woods 2, o BW2).

Gli Usa, la prima economia al mondo, ne sono diventati anche il maggiore debitore, con disavanzi che vengono sempre più finanziati dalle banche centrali asiatiche a tassi particolarmente bassi. Nel 2006 il deficit delle partite correnti americano ha toccato gli 811 miliardi di dollari, pari al 6,1% del PIL. E il dato è destinato a crescere nel 2007.

I paesi emergenti dell’Asia hanno tratto vantaggio dall’ancoraggio al dollaro debole perchè i tassi di cambio molto sottovalutati hanno consentito l’accumulo di ingenti riserve valutarie e il perseguimento di aggressive politiche di crescita economica e di industrializzazione basate sull’export.

Ma per Roubini BW2 si sta tramutando da un sistema di “disequilibrio stabile”, come molti l’hanno definito, a uno di pericoloso disequilibrio instabile. Già diversi paesi asiatici lo hanno abbandonato. E altri lo faranno, perchè i suoi limiti, in termini di surriscaldamento economico, rischi d’inflazione e bolle sui mercati finanziari, si stanno facendo sempre più evidenti.

 

Il mercato delle idee: liquidità, hedge fund e la Fed

Gli articoli raccolti nel mercato delle idee prendono questa volta in esame le cause e le possibili conseguenze del crollo dei due hedge fund gestiti da Bear Stearns; l’irrigidimento degli standard creditizi negli Usa; l’evoluzione della congiuntura economica; la salute del mercato Usa del lavoro e le prossime mosse della Fed; la correlazione tra i mercati azionari e i nessi tra globalizzazione e inflazione.

Nouriel Roubini, nel suo blog, riflette sul crollo di due fondi hedge di Bear Stearns, travolti dall’aggravarsi della crisi del mercato immobiliare Usa. I fondi investivano in CDO, strumenti poco liquidi, poco trasparenti e, come ora si comincia a capire, molto rischiosi a dispetto di rating irrealisticamente elevati. Il continuo approfondirsi della recessione nel mercato della casa, il rialzo dei tassi dei mutui ipotecari, il processo di riesame del merito di credito dei CDO, che oramai è in corso, e il riverberarsi delle pesanti perdite dei due hedge fund di Bear Stearns sul resto dell’industria dei fondi hedge e sui broker primari che prestano loro liquidità costituiscono un cocktail molto pericoloso. Per Roubini i rischi di contagio sono evidenti, e paragonabili a quelli innescati dal crollo del fondo LTCM nel 1998.

Barry Ritholtz, nel suo blog The Big Picture, riporta molti e interessanti dettagli sui motivi che hanno causato il collasso dei due hedge fund di Bear Stearns, e sulle possibili conseguenze. Si scopre tra l’altro che i fondi operavano con una leva di 20:1. L’asta per gli asset messi ora in liquidazione rivelerà il loro vero valore di mercato. E, di conseguenza, il valore di asset simili detenuti da tanti altri investitori nell’oscuro mercato dei CDO. Per alcuni di questi potrebbero essere dolori.

La crisi del mercato Usa dei mutui subprime sta inducendo un complessivo irrigidimento degli standard applicati all’offerta di credito, con ripercussioni che vanno ben oltre il settore immobiliare. Le vendite di case sono in caduta verticale, ma quel che più preoccupa Paul Kasriel di Northern Trust è l’impatto sull’offerta complessiva di liquidità negli Usa . Il tasso di crescita del credito totale, corretto per l’inflazione, è sceso dal 9% dell’ottobre scorso al 4,6% di maggio.

Il Superindice Usa resta debole e potrebbe calare di nuovo a giugno, come segnala Asha Bangalore di Northern Trust. Si noti che, a parte il falso segnale del 1966/1967, il LEI (Leading Economic Indicator) ha sempre correttamente anticipato le recessioni dell’ultimo mezzo secolo.

Ottimo sommario, in un articolo di Wolfgang Munchau per Eurointelligence, sul problema dell’eccessiva liquidità, che ha finito per gonfiare le valutazioni di un po’ tutti i mercati finanziari. Qual è la causa? Le politiche monetarie in America ed Europa, o l’accumulazione di riserve in Asia, che è il risultato di politiche di cambio supercompetitive? Probabilmente la seconda, nel qual caso la stretta della Federal Reserve e i rialzi della BCE potrebbero risultare ininfluenti. C’è il rischio che gli squilibri continuino a montare, e che le bolle sui mercati finanziari si gonfino ancora. Alla fine i danni saranno maggiori, anche se per gli investitori resta molto problematico capire quanto vicina, o quanto lontana, possa essere questa resa dei conti.

Paul McCulley, managing director di PIMCO, riflette con la consueta brillantezza sull’andamento del ciclo in America e le prossime mosse della Fed. I dati sull’occupazione, argomenta McCulley, probabilmente sovrastimano lo stato di salute del mercato del lavoro, com’è tipico nelle fasi avanzate del ciclo. C’è il rischio che la Fed, interpretando alla lettera le risultanze di un indicatore che si muove comunque in ritardo rispetto al ciclo, finisca per sottovalutare le difficoltà dell’economia Usa, rendendo inevitabile, con la sua inazione, una recessione. La strategia di PIMCO resta centrata su attese di debolezza ciclica e tassi a breve in calo.

Il sentiment index di Investor’s Intelligence evidenzia livelli molto bassi di pessimismo (i più bassi da 3 anni) tra gli autori di newsletter d’investimento americane. Il differenziale tra la percentuale di bulls e bears, e cioè tra ottimisti e pessimisti, è pure molto elevato. E siccome l’indice funziona come un buon indicatore contrario, si tratta di un segnale che dovrebbe suggerire cautela.

Quanto correlati sono i mercati azionari tra di loro? In genere abbastanza, risponde il blog Ticker Sense di Birinyi Associates. I mercati che si muovono più all’unisono con quelli Usa sono i mercati latinoamericani e, a seguire, quelli europei. I meno correlati restano i mercati asiatici e quello australiano. Le correlazioni sono aumentate nell’ultimo anno: una brutta notizia per quanti cercano di ridurre il rischio con la diversificazione dei portafogli.

Eric Chaney di Morgan Stanley pubblica un’interessante analisi sui rapporti tra globalizzazione e inflazione. Il raddoppio della forza lavoro globale, quella cioè operante in contesti economici aperti al commercio internazionale, sta esercitando una poderosa pressione al ribasso sui salari nominali. E l’apertura delle frontiere nazionali al libero scambio migliora la produttività aggregata. Dai tempi della caduta del muro di Berlino, l’una e l’altra sono cause di un processo deflazionistico che per Chaney non ha ancora compiuto il suo corso. Ma i rischi d’inflazione sono in agguato, in primo luogo per l’aumentato pericolo di reazioni protezionistiche ai processi di globalizzazione.

 

Il mercato delle idee: curve, commodities e bolle

Tra gli articoli recenti che vado a esporre nel mercato delle idee ci sono le riflessioni di Barry Ritholtz sui dati americani sull’inflazione, un ammonimento di Mike Panzner tratto dall’andamento della curva dei rendimenti, le previsioni di PIMCO, che resta bullish sui mercati delle commodities, un’interessante ricerca di Michael Mauboussin sull’importanza del carattere per un investitore, le considerazioni di Northern Trust sui tratti sempre più speculativi del rally del mercato azionario cinese.

Le borse si sono entusiasmate per gli ultimi dati sull’inflazione Usa. Ma le statistiche sono ingannevoli, come ben argomenta Barry Ritholtz in The Big Picture.

La curva dei rendimenti Usa, dopo un protratto periodo di inversione, è tornata ad avere un’inclinazione positiva, in seguito al brusco rialzo dei tassi a lunga. Chi ha interpretato positivamente la novità, e sono i più, rischia di sbagliarsi di grosso, come mostra Mike Panzner su Bloggingstocks.

Il pessimismo sul dollaro va molto di moda. Eppure, forse anche per questo, il biglietto verde potrebbe essere a una svolta. Di nuovo Mike Panzner nel suo blog .

Bill Gross, “re dei bond” e fondatore di PIMCO, illustra le previsioni di medio-lungo periodo del suo gruppo: crescita globale sostenuta, tassi in ripresa, dollaro sempre debole, borse OK e rally di materie prime e valute emergenti.

Per BCA Research i mercati azionari restano attraenti rispetto agli asset concorrenti, anche dopo la recente ascesa dei rendimenti obbligazionari. Il consiglio è di continuare a comprare nelle fasi di debolezza (“buy the dips”).

L’ultimo paper di Michael Mauboussin è, come sempre, affascinante. Sono i tratti del carattere quelli che distinguono i grandi investitori, come d’altra parte sembra avere ben chiaro Warren Buffett nella ricerca di un successore alla guida del suo gruppo. Quali sono le caratteristiche che Buffett ritiene essenziali? L’abilità di riconoscere ed evitare i rischi gravi, la capacità di pensare in modo indipendente, la stabilità emotiva e il talento nel comprendere i comportamenti umani.

Ticker Sense ogni settimana tasta il polso di oltre 50 tra i più noti blogger finanziari, per conoscere le loro attese sui mercati azionari. Il sentiment resta in prevalenza negativo, una condizione che ha accompagnato tutto il rally dell’ultimo anno.

Crosscurrents di Alan Newman documenta il fervore speculativo che anima la Borsa americana. I volumi negoziati sono tornati a superare un multiplo di tre volte il Pil per la seconda volta nella storia (la prima, ovviamente, è stata nel 2000), l’holding period medio di un titolo azionario è sceso verso i 6 mesi, e la liquidità detenuta dai fondi è crollata ai livelli più bassi di sempre. Conclusione? Gli investitori sono quasi scomparsi e domina il trading di breve periodo in un mercato ipercomprato. Newman prevede una correzione almeno del 15% entro l’autunno.

Think BIG di Bespoke Investment Group osserva come il rally dei rendimenti obbligazionari americani, che alle scadenze decennali hanno superato di gran corsa la soglia del 5%, abbia colpito l’immaginazione dei media. Ne hanno parlato tutti con grande rilievo, anche i piccoli giornali di provincia, tra attese di continui rialzi. Quando il sentiment si fa così estremo – commenta il blog – è probabile che un massimo, per lo meno di breve periodo, sia stato raggiunto.

Northern Trust analizza la bolla del mercato azionario cinese, simile ormai al Nasdaq di fine anni ’90. Non solo il multiplo P/E ha toccato il livello irragionevole di 44 volte gli utili dello scorso anno, ma la volatilità è sempre più elevata, segno di un mercato molto speculativo. Solo negli ultimi sei mesi ci sono state 11 sedute in cui l’indice di Shanghai ha chiuso con variazioni superiori al 4%. Benché manchino dati precisi, c’è ampia evidenza del fatto che i piccoli investitori cinesi, che contano anche per l’80% delle transazioni nelle giornate più attive, ricorrono ampiamente al debito per “giocare” in borsa. Quando la bolla scoppierà – e non c’è dubbio che scoppierà – sarà difficile per le autorità evitare gravi ripercussioni sociali. E il colpo che verrà inferto ai consumi dell’emergente classe media cinese finirà per pesare sull’export di tutto il continente asiatico.

Sei ragioni per cui l’ascesa dei rendimenti obbligazionari è una minaccia per i mercati azionari: le illustra Barry Ritholtz su The Big Picture.

L’oro, negli ultimi mesi, ha subito una sensibile correzione. Ma per Prieur du Plessis c’è un lungo bull market ancora davanti a noi. Le analogie con il ciclo degli anni ’70, analizzate in un post sul blog Investment Postcards from Cape Town, sono suggestive.

 

Analisi strategica del ciclo II

Il mio precedente post, Analisi strategica del ciclo I, si può riassumere in poche idee: a) Ai fini di una profittevole gestione del portafoglio, l’esame assiduo e minuzioso del ciclo economico è, per l’investitore accorto, una tentazione da respingere. b) Può essere utile, invece, un’analisi strategica che sia esclusivamente mirata a individuare i grandi punti di svolta segnati dall’approssimarsi di una recessione, un evento relativamente raro (verificatosi, ad esempio, solo nove volte negli Stati Uniti dal dopoguerra a oggi). c) Nel riconoscere per tempo una recessione, l’investitore accorto sa di non poter far conto né sul mercato né sulle forze che più lo condizionano, come banche centrali, governi, consenso dei grandi operatori e analisti.

Si tratta di “giocatori” che hanno in genere l’interesse a posporre, per quanto possibile, questa sgradevole ma inevitabile fase della vita economica, di solito negandola (spesso anche a se stessi). Oppure che, anche quando la considerino imminente e ineluttabile, si guardano bene dal dirlo, per non vedersene attribuita la responsabilità (penso, in questo caso, alle banche centrali). L’opera di rimozione è resa facile dal fatto che le recessioni si materializzano alla fine di un ciclo espansivo, quando l’ottimismo prevale e il successo arride, momentaneamente, a chi più ha rischiato.

d) L’investitore accorto deve quindi usare la sua testa, e fare ricorso ai buoni consigli di una minoranza di analisti, di comprovata perspicacia, e fuori dal coro.

Proverò adesso a calare questa griglia di idee, piuttosto vaghe e di largo respiro, nella realtà di oggi.

Analisi del ciclo attuale

I mercati azionari sono in una fase “toro”, senza correzioni significative, da oltre quattro anni – una delle espansioni più lunghe del dopoguerra. Hanno superato indenni anche il primo biennio del ciclo presidenziale Usa (2005-2006), tipicamente caratterizzato da una certa debolezza delle Borse (e il ciclo presidenziale è stato sinora uno degli strumenti più affidabili di analisi ciclica del mercato).

E’ vero che si lasciavano alle spalle i ribassi particolarmente pronunciati del bear market del 2000-2002. Ma è altrettanto vero che, nel punto di massima inflessione – nell’ottobre del 2002 negli Usa, e nel marzo del 2003 in Europa – non avevano ancora raggiunto livelli valutativi in linea con la media storica.

L’attuale rally, cioè, è partito da uno stato di sopravvalutazione e si sta spingendo verso una condizione di bolla paragonabile al 2000 (anche se all’impazzimento per i titoli TMT si sono oggi sostituite manie più sofisticate e/o esotiche come il private equity, i credit derivatives, e la Cina).

L’ultima recessione, negli Usa, è di 6 anni fa. Fu blanda e di corto respiro grazie all’imponente reazione della Federal Reserve, che portò i tassi addirittura all’1%, e all’aggressivo uso della leva fiscale da parte dell’amministrazione Bush, che partendo da una virtuosa condizione di surplus ha fatto sprofondare il bilancio federale in un pesante deficit.

Quella breve recessione accadeva poi a 11 anni dalla recessione precedente del 1990: uno iato di una durata senza precedenti, e reso possibile dalle politiche troppo espansive della Fed e dall’euforia “millenaristica” per la new economy, che travolse gli americani – e non solo – in prossimità dell’anno 2000.

Un quindicennio di crescita drogata ha lasciato gli Usa, il cuore del sistema globale, male attrezzati per il futuro: un enorme deficit commerciale, un grande deficit di bilancio, famiglie molto indebitate e tassi di risparmio negativi, un dollaro in balia delle decisioni d’investimento delle banche centrali asiatiche.

Non è una battuta osservare, come hanno fatto già in molti, che se gli Usa non fossero gli Usa, il Fondo Monetario Internazionale sarebbe già da tempo intervenuto con le sue amare ricette per cercare di porre rimedio a un tale strutturale dissesto.

Le osservazioni che ho fatto sin qui non sono le uniche possibili. In positivo si potrebbe parlare, a livello micro, della migliorata governance delle aziende, e, a livello macro, del fenomenale sviluppo dei paesi emergenti. E di altro ancora.

Ma soffermarsi a considerare, in un periodo di diffuso ottimismo, la fragilità del cuore del sistema e lo stato di sopravvalutazione dei mercati è forse la premessa essenziale, per l’investitore accorto che si cimenti in un’analisi strategica della congiuntura.

Squilibri strutturali e rischi di recessione

Siamo dunque a un punto del ciclo in cui è giusto chiedersi se, anziché la vigorosa spinta alla ripresa e alla crescita, non possano essere gli squilibri sottostanti a cominciare a dettare il passo dei mercati. Per l’investitore accorto, insomma, è arrivato il tempo della circospezione.

Un rapido giro d’orizzonte rivela che l’economia Usa è entrata, da alcuni trimestri, in una fase di rallentamento ma che il ciclo globale resta vigoroso (sin troppo, in paesi come la Cina).

L’opinione diffusa è che i problemi americani siano limitati al mercato immobiliare, e che la pausa, come è abbastanza comune a metà del ciclo e come già accadde nella fase centrale della scorsa decade, evolverà verso una rinnovata espansione, probabilmente già dal prossimo semestre.

Sarà. Ma alcuni dei miei economisti preferiti (non tutti, a dire il vero) non sono d’accordo. Penso, ad esempio, a Paul Kasriel di Northern Trust e Van Hoisington e Lacy Hunt di Hoisington Management , le cui analisi dell’economia Usa leggo sempre con viva attenzione.

L’ultimo “Quarterly Review and Outlook” di Hoisington & Hunt, in particolare, offre, in 5 pagine e 5 brevi ma puntuali capitoli, un’eccellente sintesi dei motivi che, a giudizio degli autori, stanno spingendo gli Usa verso la recessione. Provo a riassumerli.

1) La politica monetaria è restrittiva e l’andamento degli aggregati monetari ne è prova. Bisogna poi tener conto del fatto che, a causa dei lunghi ritardi con cui la leva dei tassi esercita i suoi effetti, i 100 punti base di aumento dei Fed Funds, messi in atto nella prima parte del 2006, devono ancora impattare l’economia.

2) Il ricorso al credito da parte delle famiglie è crollato del 6% in rapporto al reddito disponibile tra fine 2005 e fine 2006. Si tratta del secondo maggiore calo dal 1952, e di un fenomeno che in passato ha quasi sempre coinciso con una recessione.

3) Fasi di pronunciata contrazione del credito, come l’attuale, a seguito di periodi di rapida espansione, hanno sempre prodotto “drammatici” aumenti delle sofferenze e delle insolvenze. Segni di contagio sono già evidenti, a partire dai mutui ipotecari di minore qualità (sub-prime e Alt-A) a quelli di maggiore qualità (prime), ai mercati delle carte di credito e dei CDO (collateralized debt obligations), dove gli standard di credito sono stati molto irrigiditi.

4) Lo scoppio della bolla immobiliare è lungi dall’esaurire i suoi effetti. Le scorte di case invendute sono ai livelli più alti da 16 anni e le nuove case completate, a febbraio (ultimi dati disponibili), erano il 9,1% in più di quelle iniziate. E ciò vuol dire che i tagli alla produzione e all’occupazione sono solo agli inizi, in un processo, che, com’è tipico di un mercato poco liquido come la casa, è destinato a dipanarsi nell’arco di anni.

L’impatto sull’economia Usa sarà amplificato dal fatto che, in questa ripresa, il settore immobiliare ha creato il 31% della nuova occupazione complessiva mentre il rifinanziamento dei mutui ha probabilmente reso possibile metà della crescita dei consumi dell’ultimo triennio.

5) Gli investimenti in beni capitali, che esercitano un importante effetto “moltiplicatore” sul resto dell’economia, stanno entrando in recessione. Sono sensibili a due fattori – profitti e utilizzo della capacità degli impianti – che sono entrambi in flessione.

6) Diversi indicatori evidenziano rischi elevati di recessione, e in particolare due di grande affidabilità: il Superindice Economico (LEI) e l’Indicatore di Kasriel (KRWI, basato sulla curva dei rendimenti e sulla variazione annua della base monetaria, rettificata per l’inflazione). Negli ultimi 40 anni, il primo ha dato un solo falso segnale, il secondo nessuno, come risulta chiaro dai grafici n. 4 e n. 8 (a pagina 4 e 5) del documento di Hoisington Management.

La conclusione di Hoisington & Hunt è che una recessione negli Usa è ormai forse inevitabile. La leva fiscale è già stata sin troppo sfruttata, potrebbe produrre risultati solo in tempi lunghi, e in ogni caso la contrapposizione tra Presidente e Congresso promette solo paralisi fino alla scadenza del mandato di Bush.

Quanto alla leva monetaria, la Fed sembra per ora preoccupata più dell’inflazione che della crescita e, come accadde a cavallo tra il 2000 e il 2001, un cambio di rotta rischia sempre più di risultare tardivo.

Valutazione delle probabilità

Si tratta di osservazioni a mio parere persuasive. Ci sono, dicevo, analisti per cui nutro pure grande rispetto, come quelli di PIMCO o di BCA Research, i quali continuano a ritenere, con il consenso, che la fase di bassa crescita americana, per quanto delicata, non si trasformerà in recessione.

E c’è poi chi teorizza il cosiddetto decoupling, e cioè il graduale affrancamento dell’economia globale dal ruolo guida degli Usa. Secondo costoro, ci potrebbe anche essere una recessione negli Usa, senza però che Asia ed Europa se ne debbano troppo preoccupare.

Su quest’ultimo punto penso che un investitore debba essere in ogni caso scettico. E’ evidente che la straordinaria crescita dei paesi emergenti sta trasformando gli equilibri globali. Ma è altrettanto evidente che quando si parla di mercati, creature istintivamente poco amanti delle novità, sarà difficile che il ruolo guida di Wall Street sia messo tanto presto in discussione.

In particolare, la correlazione delle Borse europee a quella Usa è da molto tempo superiore al 90%. E trovo difficile immaginare che una recessione americana, con pesanti perdite a Wall Street, risulti, all’improvviso, indifferente o quasi agli indici da questa parte dell’Atlantico.

Il senso di questo lungo post è allora che, dal punto di vista di un investitore accorto, il tempo presente è non solo quello della circospezione ma dell’attiva cautela.

Il ciclo è in uno stadio avanzato. Le borse sono sopravvalutate. E i rischi di recessione negli Usa sono maggiori di quanto non venga riconosciuto dal consenso. In poche parole, il rally dei mercati appare scivoloso come una buccia di banana.

Analisi strategica del ciclo I

Lo stato d’animo dell’investitore accorto alle prese con l’analisi del ciclo dovrebbe essere innanzitutto di diffidenza. I su e giù dell’economia e delle Borse sono infatti sin troppo discussi e analizzati in tutte le salse, con in genere un unico, negativo risultato: quello di indurre l’investitore a entrare e uscire continuamente dal mercato, facendo lievitare costi e tasse a scapito dei rendimenti.

Piuttosto del nevrotico e confuso agitarsi, sulla spinta delle ondate emotive che spesso colorano le analisi du jour – o quanto meno l’interpretazione che si finisce per darne – è molto meglio un atteggiamento distaccato e passivo, attento alla corretta definizione dell’asset allocation e al periodico bilanciamento del portafoglio.

Come ho però cercato di evidenziare in un post di qualche giorno fa, Cicli di mercato e rendimenti, l’investimento passivo soffre pure di una seria limitazione in tempi di Borse molto sopravvalutate: assicura i rendimenti del mercato, che però rischiano di essere negativi anche per periodi ventennali, e accettabili solo nel lunghissimo termine (50 anni o più).

Crisi di fiducia e recessioni

Come se ne esce? Forse con quella che potrei chiamare l’analisi strategica del ciclo. Mi spiego.

A studiare un po’ di storia dei mercati azionari, si vede che i grandi ribassi (dei piccoli, e cioè delle fisiologiche correzioni di un bull market, è meglio non curarsi) hanno, grosso modo, due tipi di fattori scatenanti: crisi di fiducia che diventano in breve veri attacchi di panico, come nel 1987 o nel 2001, dopo l’attentato alle Torri Gemelle, e le recessioni economiche, come – per stare agli ultimi 40 anni – quelle del 1970, 1974, 1980, 1982, 1990 e 2001.

Nel primo caso, i crolli di mercato sono improvvisi e convulsi, ma anche effimeri. Nel giro di qualche mese, gli indici ritornano ai livelli di partenza, dopo un terrificante “testacoda” che crea, distrugge, trasferisce enormi ricchezze, lasciando però in aggregato tutto come prima.

Nel secondo caso, l’evoluzione è più tortuosa e gli effetti di più lunga durata: gli indici perdono il 30%, 40%, 50% (o addirittura il 75%, quando partono da condizioni di “bolla” come il Nasdaq nel 2000) nell’arco di 1 o 2 anni e impiegano poi diverso tempo – decenni nel caso delle “bolle” – per tornare ai livelli iniziali.

Prevedere gli improvvisi attacchi di panico del mercato è impossibile (è il caso delle Torri Gemelle) o, per lo meno, estremamente problematico (nell’imminenza del Black Monday del 1987 ci fu chi liquidò le posizioni o andò “corto”, e divenne per questo celebre – ma non sapremo mai quanta parte giocò il caso nella straordinaria tempestività di quelle scelte).

Valutare i rischi di contrazione dell’attività economica, a livello globale o in un sistema-guida come quello americano, è invece possibile. E l’analisi strategica del ciclo solo a questo dovrebbe mirare: consentire all’investitore di non farsi cogliere impreparato dalla recessione, un evento che tende ciclicamente a ripetersi ogni 5-10 anni e la cui singolare rilevanza è data dal fatto di sommare in sé i caratteri della relativa prevedibilità e della brutale traumaticità.

Il mercato come barometro dell’economia?

Si potrebbe obiettare che non c’è barometro migliore del mercato stesso. Quale più tempestivo strumento di valutazione del ciclo dell’analisi tecnica degli indici? Saranno le Borse stesse (o l’analisi intermarket) ad avvertirci che una recessione è alle porte e che è arrivato il tempo di tirare i remi in barca…

Purtroppo le cose non stanno esattamente così. E’ nota la battuta del premio Nobel Paul Samuelson, il quale osservò ormai diversi anni fa come il mercato azionario avesse “previsto nove delle ultime cinque recessioni.”

E’ un’osservazione arguta, che però potrebbe essere forse aggiornata, nel senso inverso (“cinque delle ultime nove…”). Da un po’ di tempo, gli investitori sembrano collettivamente farsi prendere dall’euforia proprio quando una recessione è imminente, e soccombere alla sua ineluttabilità solo quando è tardi, e l’evidenza non può più essere negata.

Forse – ma qui azzardo un’interpretazione più discutibile di altre – nelle nostre economie così dominate dalla finanza, gli interessi tesi a far sì che continui il moto ascendente dei mercati dei capitali si sono fatti tanto pervasivi da mobilitarsi in massa e con evidente quanto momentaneo successo quando la minaccia di un’inversione del trend si profila all’orizzonte.

Sta di fatto che è di solito vano aspettarsi che siano le banche centrali, i governi, l’FMI, l’Ocse o il consenso degli analisti di mercato a lanciare allarmi sull’imminenza di una recessione. Si parlerà di rischi limitati, di “pause” o “rallentamenti” della crescita, di “squilibri” superabili.

Ma a prevedere correttamente una recessione saranno di solito pochi, bravi analisti fuori dal coro. Ed è forse per questo che il mercato azionario, espressione del consenso dei molti, si sta sempre più dimostrando, come nota l’economista Gene Epstein, un “indicatore anticipatore eccellente per quel che riguarda l’avvio di una ripresa economica, ma alquanto insensibile quando si tratta del profilarsi di una recessione.”

Vedremo in una seconda parte come questa analisi può essere applicata all’attuale fase del ciclo.

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