l'Investitore Accorto

Per capire i mercati finanziari e imparare a investire dai grandi maestri

Archivi per il mese di “giugno, 2007”

Sul cattivo uso del P/E e il P/E normalizzato

Un articolo apparso su Bloomberg News qualche giorno fa ha attirato la mia attenzione. Si trattava, d’altra parte, di un’esclusiva pubblicata con grande risalto e dal titolo sensazionale: “S&P 500 Stocks Are 45% Cheaper Than When Index Last Hit Record” (I titoli dell’S&P 500 sono il 45% meno cari di quando l’indice toccò i massimi del 2000”). Ne riporto, in una mia traduzione, alcuni passi salienti.

“I titoli dell’indice S&P 500 potrebbero essere ancora un “affare” dopo che il benchmark azionario americano ha sorpassato i massimi del 2000. Continua a leggere…

Lezioni americane

Ho scelto di fare il giornalista perché sono curioso delle cose del mondo e mi piace costruire microcosmi di parole. Ma ogni volta che scrivo finisco per chiedermi: “Come si scrive?” La risposta più bella penso che l’abbia data Italo Calvino (nella foto) con le sue Lezioni americane, da cui voglio riprendere qui alcuni spunti, giusto per invogliarmi a tornare spesso a gustare quel libro. Leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità e molteplicità sono le qualità su cui Calvino riflette (ce n’era una sesta, “consistency”, di cui ha purtroppo lasciato solo il titolo).

La leggerezza scaturisce dalla natura della realtà, è un uso della parola “come inseguimento perpetuo delle cose, adeguamento alla loro varietà infinita.” Ma è anche necessità antropologica, “levitazione desiderata” in risposta alle privazioni sofferte, “reazione al peso di vivere.”

La leggerezza, per Calvino, “si associa con la precisione e la determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono al caso.” E’ quella descritta da Paul Valéry nella frase: “Il faut etre léger comme l’oiseau, et non comme la plume.”

La rapidità è piacere. Come dice Leopardi nello Zibaldone, “la rapidità e la concisione dello stile piace perchè presenta all’animo una folla d’idee così rapidamente succedentisi, che paiono simultanee, e fanno ondeggiar l’anima in una tale abbondanza di pensieri, o d’immagini e sensazioni spirituali, ch’ella o non è capace di abbracciarle tutte, e pienamente ciascuna, o non ha tempo di restare in ozio, e priva di sensazioni. La forza dello stile poetico, che in gran parte è tutt’uno colla rapidità, non è piacevole per altro che per questi effetti, e non consiste in altro.”

Per parte sua, Galileo si interessa, nel Saggiatore, della forza del ragionamento deduttivo. Anche per lui, “il discorrere è come il correre.” La rapidità, l’agilità del ragionamento, l’economia degli argomenti, ma anche la fantasia degli esempi sono per Galileo qualità decisive del pensar bene.

Quanto a sé, Calvino dice che il suo lavoro di scrittore è stato teso a “inseguire il fulmineo percorso dei circuiti mentali che catturano e collegano punti lontani dello spazio e del tempo…la riuscita sta nella felicità dell’espressione verbale…che di regola vuol dire una paziente ricerca del mot juste, della frase in cui ogni parola è insostituibile.”

Scrivere, dunque, è per Calvino “ricerca di un’espressione necessaria, unica, densa, concisa, memorabile.”

L’esempio migliore è quello offerto da una storia cinese.

Tra le molte virtù di Chuang-Tzu c’era l’abilità nel disegno. Il re gli chiese il disegno di un granchio. Chuang-Tzu disse che aveva bisogno di cinque anni di tempo e d’una villa con dodici servitori. Dopo cinque anni il disegno non era ancora cominciato. ‘Ho bisogno di altri cinque anni’ disse Chuang-Tzu. Il re glieli accordò. Allo scadere dei dieci anni, Chuang-Tzu prese il pennello e in un istante, con un solo gesto, disegnò un granchio, il più perfetto granchio che si fosse mai visto.”

L’esattezza è per Calvino un disegno dell’opera ben definito e ben calcolato; l’evocazione d’immagini visuali nitide, incisive, memorabili, icastiche; un linguaggio il più preciso possibile come lessico e come resa delle sfumature del pensiero e dell’immaginazione. E’ Maat, la dea egizia della bilancia, rappresentata da una piuma che serviva da peso sul piatto della bilancia dove si pesano le anime.

L’esattezza è cura contro “l’epidemia pestilenziale” che ha colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta “come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze.”

E’ una peste che “colpisce anche la vita delle persone e la storia delle nazioni, rende tutte le storie informi, casuali, confuse, senza principio né fine.”

La visibilità è il frutto dell’immaginazione, che Calvino definisce come “repertorio del potenziale, dell’ipotetico, di ciò che non è né è stato né forse sarà ma che avrebbe potuto essere.” Quello spiritus phantasticus che Giordano Bruno descriveva come “mundus quidem et sinus inexplebilis formarum et specierum.”

Dice Calvino.”Ecco, io credo che attingere a questo golfo della molteplicità potenziale sia indispensabile per ogni forma di conoscenza. La mente del poeta e in qualche momento decisivo la mente dello scienziato funzionano secondo un procedimento d’associazioni d’immagini che è il sistema più veloce di collegare e scegliere tra le infinite forme del possibile e dell’impossibile.”

Come scrive Dante nel Purgatorio, “Poi piovve dentro a l’alta fantasia.”

La molteplicità è quella del racconto come grande rete che lega ogni cosa. E’ il tema della Recherche di Proust, dove la rete è fatta di punti spazio-temporali occupati successivamente da ogni essere, il che comporta una moltiplicazione infinita delle dimensioni dello spazio e del tempo. Il mondo si dilata fino a diventare inafferrabile, e per Proust la conoscenza passa attraverso la sofferenza di questa inafferrabilità.

Osserva Calvino: “Qualcuno potrà obiettare che più l’opera tende alla moltiplicazione dei possibili più s’allontana da quell’unicum che è il self di chi scrive, la sincerità interiore, la scoperta della propria verità. Al contrario, rispondo, chi siamo noi, chi è ciascuno di noi se non una combinatoria d’esperienze, d’informazioni, di letture, d’immaginazioni? Ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario d’oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili.”

Dalla domanda sui valori da preservare nella scrittura Calvino mi ha condotto per mano a una possibile risposta al perchè ho cominciato a scrivere questo blog. E così questo piccolo cerchio per oggi si chiude.

Blogger in contraddizione

Me ne rendo conto: in questo blog cominciano ad affiorare delle contraddizioni. E, in una certa misura, la cosa mi rallegra. Sin dall’inizio ho pensato che scrivere sarebbe servito a dare maggiore chiarezza alle esperienze e alle letture fatte nel campo degli investimenti. E per chiarire, prima di tutto bisogna portare alla luce le aporie, le contraddizioni.

Diceva Karl Popper  (nella foto) che “Il nostro interesse principale in scienza e in filosofia è, o dovrebbe essere, la ricerca della verità, mediante audaci congetture, e la ricerca critica di ciò che è falso nelle nostre varie teorie rivali.”

Io non sono nè scienziato nè filosofo, ma mi rendo conto che l’attività conoscitiva comincia con la scoperta di problemi. E così, mentre ieri finivo di scrivere i miei post sul fantomatico Fed Model, mi ha fatto piacere rendermi conto che proprio un problema mi si era appena parato davanti.

Stavo citando Valuing Wall Street, il libro di Andrew Smithers e Stephen Wright, e la loro conclusione che non c’è relazione tra rendimenti obbligazionari e rendimenti azionari per il semplice motivo che i primi sono condizionati dall’inflazione e i secondi no. Ovvero, le azioni sono indifferenti all’inflazione e per questo non ha senso valutarle in relazione ai bond (come fa il Fed Model).

E’ una conclusione che avevo fatto mia. Ma mentre la riportavo mi sono reso conto che cozzava con alcune tesi di un altro libro che apprezzo e che ho già citato su questo blog, e cioè Unexpected returns di Ed Easterling.

Valutazioni azionarie e inflazione

Nel post Cicli di mercato e rendimenti del 27 aprile scorso ho riassunto alcune delle conclusioni di Easterling, tra cui quella che i bear market e bull market secolari susseguitisi nella storia dei mercati azionari (otto nell’ultimo secolo) sarebbero causati dalle fluttuazioni del tasso d’inflazione.

Dunque, la difficoltà è di nuovo quella che pensavo di aver risolto verso la fine del post Il fantomatico Fed Model II, e cioè il ruolo giocato o non giocato dall’inflazione nei mercati azionari.

Proprio mentre schieravo due dei miei autori preferiti (Smithers e Wright) contro le debolezze dei sostenitori del Fed Model, è saltato fuori un conflitto con un altro autore (Easterling) alle cui tesi fino ad oggi avevo dato credito (anche su questo blog).

Come uscirne? Beh, in primo luogo verificando i termini esatti della questione. Sono così andato a controllare.

Questa è la citazione dal libro di Smithers e Wright (pp. 245-247):

“Dal punto di vista statistico, valutare le azioni in rapporto ai rendimenti obbligazionari o all’inflazione è un caso esemplare di selezione dei dati al fine di sostenere una tesi preconcetta, anziché usare i dati oggettivamente nel tentativo di scoprire la verità. […] Quando si utilizzano tutte le informazioni disponibili risulta chiaro che tra bond yield e dividend yield o multipli P/E non c’è in sostanza nessuna correlazione. Le previsioni teoriche sono dunque confermate dalla realtà.”

Cosa sostiene invece Easterling? Dopo aver individuato, nel corso del ventesimo secolo, quattro fasi caratterizzate da multipli P/E in espansione (bull market) e quattro fasi caratterizzate da P/E in contrazione (bear market), Easterling scrive (p.84):

“I periodi con P/E in aumento corrispondono a periodi in cui l’inflazione si muove verso una condizione di stabilità dei prezzi. I periodi con P/E in calo corrispondono a periodi in cui l’inflazione si scosta da una condizione di stabilità o verso un’inflazione maggiore o verso una maggiore deflazione.”

E’ quello che chiama “effetto curva Y”, perché incrociando i dati sui P/E di mercato con i tassi d’inflazione, Easterling ne ricava una rappresentazione a forma di Y.

A un’inflazione attorno al 2% corrispondono fasi di mercato come la seconda metà degli anni ’20, la prima metà degli anni ’60 o la seconda metà degli anni ’90, in cui il mercato si è spinto verso multipli P/E tra 20 e 40 (la gamba della Y). A un’inflazione al galoppo verso il 5%-10%-15% o in picchiata verso tassi negativi (deflazione) corrispondono fasi di mercato come gli anni ’30 o gli anni ’70, in cui i P/E sono crollati sotto il 10 (le due braccia della Y).

Che spiegazione dà Easterling dell’ “effetto curva Y”? A p. 135 scrive:

“Quando l’inflazione aumenta, il ritorno che gli investitori esigono dalle azioni aumenta, perché vogliono essere compensati per la maggiore inflazione. Di conseguenza, i prezzi azionari scendono a livelli dove possono assicurare ritorni futuri superiori. Quando l’inflazione diventa invece deflazione, il risultato è un calo degli utili futuri. E se l’attesa degli investitori è che gli utili in futuro scenderanno, anche i prezzi correnti caleranno.”

Broker economics e illusione monetaria

L’idea che gli investitori in azioni debbano essere compensati per la maggiore inflazione, come se le azioni fossero in tutto e per tutto uguali alle obbligazioni, è quanto abbiamo già visto definire da Smithers e Wright (nel mio post precedente) come l'”enorme sciocchezza” della “broker economics.” Si tratta della stessa “sciocchezza” che sembrano dimostrare tutti coloro che sono accecati da forme di illusione monetaria.

Mi fermo qui un attimo, per raccogliere e sintetizzare i termini del “problema.”

Mi sembra si possa dire che per Smithers e Wright il rapporto tra inflazione e azioni non deve esistere e infatti non esiste; mentre per Easterling (e la “broker economics”) il rapporto tra inflazione e azioni esiste ed è normale che esista. Siamo agli antipodi, sia nella teoria che nell’interpretazione dei dati.

Sui dati, non so per ora cosa dire. Qualcuno probabilmente si sbaglia e finisce per “dimostrare” più di quanto i dati non dicano. Cercherò di fare verifiche con altre fonti.

Sulla questione teorica, penso che l’investitore accorto, proiettato su un orizzonte di lungo periodo, debba stare dalla parte di Smithers e Wright.

Valutare le azioni come se fossero bond non ha senso, tanto più che esistono studi che confermano empiricamente come le fluttuazioni del livello dei prezzi si trasferiscano prontamente anche ai profitti. Al variare dell’inflazione varia in pari misura il flusso di utili attesi e non c’è dunque motivo perché cambi il valore intrinseco di un titolo azionario.

Utilizzare il Dividend Discount Model come fa la “broker economics” è davvero insensato.

Ci sono due osservazioni che vale forse la pena aggiungere. La prima riguarda l’indiscutibile esistenza di forme di illusione monetaria.

Si tratta di un fattore ininfluente se, come nel caso di Smithers e Wright, l’obiettivo dell’analisi è di identificare un rigoroso modello di valutazione dei mercati azionari nel lungo periodo. Ma probabilmente è un elemento che gli speculatori di breve periodo (a cui si rivolge in larga misura la “broker economics”) non possono ignorare.

E’ come dire che ai primi interessa capire il mercato come dovrebbe essere per poter sfruttare le inefficienze (e cioè le deviazioni dal fair value) del mercato come è, mentre i secondi pensano di poter raggiungere lo stesso obiettivo con la sola conoscenza del mercato come è.

I primi tirano dritto seguendo la loro misura del valore, convinti della sua obiettività e fondatezza, i secondi inseguono il mercato con la speranza di riuscire ad anticiparlo.

L’altra osservazione riguarda gli effetti negativi di un’inflazione che si allontani da una sostanziale condizione di stabilità dei prezzi. Sappiamo che questa è la prima preoccupazione delle banche centrali. E il motivo è che l’inflazione danneggia l’attività economica nel suo complesso, riducendo l’efficacia dei segnali di prezzo, aumentando l’incertezza e facendo lievitare il peso delle tasse.

L’orizzonte temporale: breve periodo o lungo periodo?

Nel corso del ciclo è indubbio che l’inflazione, e le azioni che le banche centrali mettono in campo per tenerla sotto controllo, finiscono per avere ricadute importanti sull’andamento di tutta l’attività economica, e quindi anche dei profitti societari.

Per lo speculatore che operi all’interno di un tale orizzonte temporale, e che sia ossessionato dai profitti del prossimo trimestre o del prossimo anno, si può capire che l’inflazione e i tassi diventino variabili in base a cui “valutare” le azioni.

Ma l’investitore accorto dovrebbe tenere lo sguardo proiettato nel lungo periodo. Le azioni, a differenza dei bond, sono strumenti con una durata finanziaria di svariati decenni (all’atto pratico, quando si consideri l’intero mercato, la duration si può considerare illimitata).

Una variabile reale, come i profitti, proiettata per una durata praticamente illimitata gode di una proprietà che in macroeconomia si chiama “neutralità monetaria”: è indifferente alle variabili monetarie come l’inflazione.

Alla fin fine, nella contraddizione tra Smithers & Wright da una parte e Easterling dall’altra mi sembra si sia aperto uno squarcio di luce: i primi operano concettualmente nel lungo periodo, il secondo nel breve.

Si tratterebbe ora di capire fino a dove si spinga il breve e dove cominci il lungo. E di capire ancora dove mi voglia e possa coerentemente collocare io.

Un elemento da considerare del libro di Easterling è che l’autore individua nel tasso d’inflazione il driver dell’evoluzione dei P/E per cicli di mercato che si spingono anche fino a 24 anni (nel caso del bull market del 1942-1965), mentre la durata media dei quattro bull market dello scorso secolo si ferma a 13,5 anni e quella dei bear market a 11,3 anni.

Anche per l’investitore proiettato nel lungo periodo, si tratta di cicli estesi con protratte deviazioni dal fair value, che in base alla rigorosa analisi fondamentale di Smithers e Wright andrebbero giudicate come irrazionali e, in ultima istanza, irrilevanti.

Ma se le cose stanno così (anche se devo aggiungere che l’analisi delle cause dei “cicli secolari” del mercato azionario, con la riduzione al fattore unico dell’inflazione, è una delle parti meno argomentate e convincenti del libro di Easterling) ci sarebbe, per l’investitore attento al valore, di che dubitare dell’efficacia dei soli strumenti di analisi razionale.

Cercherò nei prossimi giorni di scrivere della q di Tobin come strumento proposto da Smithers e Wright per l’individuazione del valore e delle strategie di investimento che da essa ricavano.

Ma per ora chiudo con un atto di pensosa – ma anche divertita – contemplazione dei limiti dell’indagine razionale, ricordando una famosa frase di John Maynard Keynes: “Non c’è nulla di così pericoloso come il perseguimento di una politica d’investimento razionale in un mondo irrazionale.”

Il fantomatico Fed Model II

Riprendo da dove avevo lasciato in sospeso la prima parte di questo articolo, e cioè con le due domande: il Fed Model funziona? E se funziona, ha senso? I tentativi di dimostrare che il Fed Model è utile nel valutare la convenienza relativa di bond e azioni e nel predire l’andamento del mercato azionario ovviamente non mancano. Hanno però una cosa che tutti li accomuna, e cioè il fatto di limitarsi a considerare i dati degli ultimi 25 anni.

La ragione di solito addotta è che solo dagli anni ’80 sono diventate disponibili le stime di consenso sugli utili operativi “prospettici” (i cosiddetti forward earnings, e cioè quelli attesi nei prossimi 12 mesi), che sono tipicamente usate per compilare il modello.

Si tratta purtroppo di un escamotage. I forward earnings hanno una relazione sufficientemente costante con gli utili storici da far logicamente pensare che utilizzare questi ultimi, anziché i primi, in uno studio statistico di più lungo periodo dovrebbe migliorare l’affidabilità dei risultati, e non certo inficiarla.

E questo perché uno studio di più lunga durata ci protegge dal rischio sommo di ogni analisi statistica, il data mining, ossia la più o meno inconsapevole selezione di quei dati che “dimostrano” a priori una ipotesi (in altre parole, 25 anni sono troppo pochi per capire se la correlazione tra bond yield ed earnings yield, evidenziata nel Fed Model, è casuale o no).

Il Fed Model non funziona

Ma cosa succede se si guarda a ritroso, spingendosi più indietro degli anni ’80? Ce lo racconta graficamente John Hussman, in un’analisi pubblicata su HussmanFunds.com :

Si scopre che: a) la relazione tra earnings yield (linea verde) e Treasury yield (linea viola) non è per nulla costante; b) l’earnings yield da solo consente di fare una previsione molto meno imprecisa dei rendimenti successivi del mercato azionario (linea blu).

L’earnings yield, ovviamente, è l’inverso del P/E. E ciò vuol dire che il buon, vecchio metodo del P/E, per quanto imperfetto, ci offre stime valutative più utili del Fed Model. L’aggiunta, nel Fed Model, del confronto con i bond yield non fa che distruggere l’utilità del P/E.

Ma allora a che si deve la popolarità del Fed Model? L’analisi statistica non ce lo può dire. Ma non si può non ricordare come il metodo del P/E, nelle sue diverse versioni, ci ammonisca ormai da un decennio che i mercati azionari sono sopravvalutati, mentre il Fed Model ci illude del contrario.

Il Fed Model non ha senso

Il grafico di Hussman mostra che il Fed Model, in sostanza, non funziona. Ma resta la necessità di capire se abbia un qualche senso. E’ mai possibile che i tassi d’interesse non influenzino le valutazioni e i rendimenti azionari?

Vorrei affidarmi qui alla magistrale trattazione che di questa questione (così come di altre) fanno Andrew Smithers e Stephen Wright nel loro Valuing Wall Street .

Il Fed Model, osservano Smithers e Wright, è nato non a caso verso la fine del bull market degli anni ’80-’90, quando l’ascesa delle Borse si accompagnò a inflazione e tassi nominali in ribasso. In questo contesto prese piede la “teoria” che un’inflazione in calo fa bene alle azioni.

E perché mai? Perché, sostiene la teoria, un’inflazione più bassa porta a tassi d’interesse più bassi, e tassi d’interesse più bassi aumentano il valore attuale dei flussi di utili (o dividendi) attesi in futuro. Quindi, più bassi tassi giustificano valutazioni più elevate e rendono del tutto plausibili gli alti P/E degli ultimi anni.

Se questo ragionamento sembra corretto è forse perché viene ripetuto ad nauseam in quella che Smithers e Wright chiamano ironicamente broker economics”. La loro opinione è che si tratti di “supreme nonsense”, una enorme sciocchezza.

Andrebbe intanto notato che un ragionamento esattamente opposto era in voga negli anni ’50-’60, e cioè durante il bull market precedente a quello degli anni ’80-’90. Allora il boom azionario si accompagnò a un’inflazione in ripresa (non in calo!, com’è peraltro evidente nel grafico di Hussman riportato all’inizio di questo post), e la teoria dominante era che l’inflazione faceva bene alle azioni.

Perché? Ma perché l’aumento della dinamica dei prezzi avrebbe gonfiato anche gli utili societari, incrementando i rendimenti attesi delle azioni. E siccome le obbligazioni pagano un flusso di cedole e restituiscono alla scadenza un capitale che sono fissi, l’inflazione avrebbe reso le azioni più attraenti rispetto ai bond.

C’è in effetti di che sorridere: inflazione in calo che fa bene alle azioni, inflazione in aumento che fa bene alle azioni…nell’universo della “broker economics” tutto fa sempre bene alle azioni. Questo è marketing, non è scienza.

Azioni e bond sono diversi

Ma c’è una verità? In effetti, come notano Smithers e Wright, il ragionamento che la “broker economics” di oggi si sforza di applicare alle azioni è il corretto modo di valutare i bond. Se l’inflazione scende, i tassi scendono e i flussi di cassa futuri valgono di più: i prezzi dei bond salgono.

Come però tutti sanno, azioni e obbligazioni sono strumenti finanziari diversi. Se le cedole e il capitale dei bond sono fissi, gli utili (o i dividendi) non lo sono. I primi sono flussi nominali, che vengono intaccati dall’inflazione, i secondi sono flussi reali, indifferenti all’inflazione, perché con essa salgono o scendono.

La verità, per Smithers e Wright, è allora che le azioni (e le valutazioni azionarie) sono fondamentalmente indifferenti all’inflazione. E se si guarda a tutta l’evidenza, sfuggendo alla tentazione del data mining che spinge a selezionare quelle informazioni che permettono di “provare” una tesi preconcetta, si vedrà una cosa soltanto: tra bond yield ed earnings yield (o il suo inverso, il P/E) non c’è alcuna relazione. Il Fed Model confronta “mele e pere” ed è pertanto privo di senso.

Arrivati a questo punto il più è fatto. Il Fed Model non funziona e non ha senso. E l’investitore accorto si dovrebbe guardare bene dall’usarlo o dal farsene condizionare. Ci sono però due argomenti accessori che forse vale la pena affrontare, perché presentano delle insidie.

Fed Model e rendimenti reali

Il primo è il seguente. Se la difficoltà da superare è che i ritorni dei bond sono nominali e quelli delle azioni sono reali, ed è questo che rende bond e azioni non confrontabili, allora basta prendere i rendimenti reali dei bond, e il Fed Model può risorgere dalle ceneri.

Le obiezioni di Smithers e Wright sono di tre tipi:

a) usare i rendimenti reali è un’operazione che, nella pratica, di solito non viene fatta, probabilmente perché, di questi tempi, tende a mostrare che le azioni sono sopravvalutate;

b) il rendimento reale dei bond non può essere il giusto tasso di sconto dei flussi monetari attesi dalle azioni: le azioni sono più rischiose, bisogna aggiungere un premio al rischio;

c) utilizzare i rendimenti reali correnti non può in ogni caso consentire di mettere a punto un valido strumento di valutazione; ci vuole un benchmark esogeno o indipendente per evitare, ad esempio, di valutare un mercato azionario sopravvalutato con il metro di un mercato obbligazionario pure sopravvalutato (come accade oggi).

La conclusione, in risposta a questo primo argomento, è che il corretto tasso di sconto per valutare il mercato azionario, volendo a tutti i costi partire dai bond, può essere soltanto il rendimento reale dei bond nel lungo periodo, cui va aggiunto il premio di rischio azionario di lungo periodo.

La somma, per definizione, dà semplicemente il rendimento azionario di lungo periodo. In altre parole, il giusto tasso di sconto non può essere altro che il costo del capitale azionario, che è uguale, per definizione, all’earnings yield di lungo periodo (il costo del capitale per l’impresa è l’altra faccia del rendimento del capitale per gli investitori).

Da qualsiasi parte si prenda le mosse si arriva insomma a quel 6,75% circa che Smithers e Wright hanno chiamato “costante di Siegel”, perché è stato Jeremy Siegel, in “Stocks for the Long Run” a rendere pubblici i suoi meticolosi studi sui ritorni azionari di lungo periodo, straordinariamente stabili attorno al 6,75% negli ultimi due secoli.

Da quel 6,75% deriva ovviamente anche la pratica indicazione, familiare alla gran parte degli investitori, sul corretto P/E del mercato, stimato attorno a 14,5-15,0: l’uno è il reciproco dell’altro (100/6,75 = 14,8)

La difesa comportamentale del Fed Model

Il secondo argomento insidioso riguarda la presunta “giustezza” degli errori del Fed Model.

Tra i suoi sostenitori c’è chi riconosce che il Fed Model è irrazionale nel paragonare rendimenti nominali dei bond con rendimenti reali delle azioni, o, come abbiamo detto, “mele con pere”. Ma si spinge ad affermare che altrettanto irrazionali sono gli investitori.

Alle prese con scelte di portafoglio tra asset in concorrenza tra loro, come bond e azioni, gli investitori sarebbero vittime di un’”illusione monetaria.”

Si tratta di una difesa più credibile, anche se molto limitata (abbiamo già visto che il Fed Model ha pecche più profonde della semplice confusione tra flussi reali e nominali). In effetti, l’illusione monetaria (money illusion) è un’idea che ha origini nobili e il sostegno di molte prove. Nacque da John Maynard Keynes, fu sviluppata da Irving Fisher (1928), nel campo dei mercati dei capitali trovò ulteriore approfondimento negli studi di Franco Modigliani (1979).

E’ tuttavia curioso che la cosiddetta ipotesi Modigliani-Cohn, che indicava come gli investitori tendessero a scontare i flussi reali delle azioni a un tasso nominale, sia stata concepita in un contesto opposto all’attuale.

Nel 1979, sostenendo che l’alta inflazione prevalente portava a scontare i flussi attesi dalle azioni a tassi troppo elevati, Modigliani e Cohn correttamente argomentarono, contro l’opinione comune, che i mercati azionari erano sottovalutati. Di fatto anticiparono il grande bull market del 1982-2000.

Oggi, nell’uso corrente del Fed Model, si cerca di dimostrare che ai bassi tassi d’interesse prevalenti gli alti multipli del mercato azionario sono giustificabili. L’illusione degli investitori, nel 1979, riguardava i tassi di sconto eccessivi, oggi probabilmente riguarda sia l’eccessiva crescita attesa degli utili (o dei dividendi) sia i tassi di sconto troppo bassi.

L’uso tattico del Fed Model

E’ possibile che le cose stiano così. Ma quale potrà mai essere l’utilità di un modello che è soltanto, per così dire, “lo specchio di un’illusione”? I proponenti di questa interpretazione del Fed Model ne sottolineano la valenza tattica nelle scelte di asset allocation, e ritengono di essere riusciti a provarne le limitate capacità predittive in orizzonti temporali di breve termine (non oltre i 36 mesi).

Posta in questi termini, la questione si riduce a essere di scarsa rilevanza per l’investitore accorto, anche se la pretesa (difficile da provare) della presunta, limitata efficacia del Fed Model come strumento per l’asset allocation tattica dovesse essere fondata.

Gli aggiustamenti del portafoglio per motivi tattici e su orizzonti di breve periodo (in sostanza, i tentativi di “indovinare” se nell’arco dei prossimi mesi andranno meglio le azioni o i bond) dovrebbero essere evitati. Comportano costi elevati e soffrono di un’eccessiva aleatorietà, risultando in un rapporto rischio/rendimento che per il piccolo investitore può solo essere sfavorevole.

Semmai, a livello tattico, un’osservazione più utile viene da John Hussman. Nell’articolo che ho già citato, Hussman riferisce che, secondo le sue ricerche, c’è un impatto che i tassi d’interesse sicuramente hanno sui mercati azionari. E non riguarda i livelli dei tassi di mercato in relazione al fair value delle azioni, come sembra ipotizzare il Fed Model, ma il trend dei tassi (a prescindere dal loro livello) in situazioni di pronunciata sopra- o sottovalutazione delle Borse.

Ciò che Hussman dice di aver verificato è, cioè, che quando il mercato azionario è molto sopravvalutato, un trend rialzista dei tassi d’interesse diventa un potente innesco di processi di “rapida” regressione verso valutazioni più normali, e viceversa, quando il mercato azionario è molto sottovalutato, un trend ribassista dei tassi è un fattore che tende a risollevare speditamente le Borse dal loro stato depresso.

Conclusione: il vero e l’accettabile

In conclusione, il Fed Model non ci dice nulla sul valore fondamentale delle azioni, e, di conseguenza, non ha nulla da dirci sui rendimenti attesi delle azioni nel medio-lungo periodo (l’orizzonte di riferimento dell’investitore accorto).

Come strumento tattico, il Fed Model è uno “specchio di illusioni” di dubbia utilità per chi naviga alla giornata, e di nessuna utilità per chi, come l’investitore accorto, studia il ciclo solo per cercare di individuare i grandi punti di svolta.

A tal fine, il passo essenziale è dotarsi di strumenti di valutazione affidabili, che consentano di determinare quando le azioni si allontanano dal loro fair value. Solo a questo punto, la tattica può avere un ruolo. E l’andamento dei tassi, così come le illusioni monetarie degli investitori, possono diventare un fattore da considerare.

Introducendo il concetto di “conventional wisdom” (saggezza convenzionale), John Kenneth Galbraith (nella foto in alto), nel suo classico La società opulenta, scriveva che nell’analisi dei complessi fenomeni sociali ed economici il “vero” e il “semplicemente accettabile” sono in continua competizione. Alla lunga è il “vero” che si afferma ma nel breve è spesso l’accettabile ad averla vinta. E questo perché, in larga misura, noi tendiamo ad “associare la verità con la convenienza.”

Ed è questo quel che oggi possiamo dire del Fed Model: un’idea semplice e conveniente, divenuta pertanto accettabile. Ma non vera.

Il fantomatico Fed Model I

Ideato nel 1997, il cosiddetto Fed Model si è affermato negli ultimi anni come uno dei più diffusi strumenti di valutazione del mercato azionario: una popolarità dovuta alla sua accattivante semplicità e forse – ma questo per ora va considerato solo un mio sospetto – al sostegno offerto, dall’alto di un nome così altisonante, alla tesi che l’investimento azionario, dopo il bear market del 2000-2002, sia ritornato a essere attraente.

Una rappresentazione illuminante di cosa sia il Fed Model, e di come venga utilizzato, ce la può dare – ed è un esempio tra tanti – un articolo di Bloomberg News , pubblicato con molto rilievo poche settimane fa. Ne riprendo alcuni stralci, in una mia traduzione:

Le valutazioni azionarie più convenienti da due decenni annunciano un mercato del Toro
“L’economia americana rallenta. Aumentano i crediti ipotecari in sofferenza. Ma le Borse non sono mai state così a buon mercato negli ultimi vent’anni, e offrono, a giudizio di alcuni dei maggiori gestori di patrimoni al mondo, un’ottima opportunità di acquisto.”

Gli utili delle società dell’S&P 500 stanno crescendo più rapidamente dei prezzi e offrono un rendimento del 6,53% rispetto al 4,65% del Treasury bond decennale. Il differenziale, il più ampio dal 1986 secondo dati compilati da Bloomberg, è d’incoraggiamento per gli investitori dato che le stime degli utili indicano che gli Usa continueranno a crescere, mentre i rendimenti dei bond rivelano fiducia nel fatto che l’inflazione resterà sotto controllo.” […]

“Più alto è il rendimento degli utili in rapporto all’interesse pagato dai bond, più convenienti risultano essere le azioni in termini relativi. Questa misura fu citata dall’ex presidente della Federal Reserve, Alan Greenspan, nel 1997 ed è comunemente nota come Fed Model.” […]

In base al Fed Model, l’S&P 500 dovrebbe salire a 1791,21 punti, e cioè del 26%, per essere correttamente valutato rispetto al reddito fisso. […] “Finché i rendimenti degli utili si mantengono ben al di sopra dei costi di finanziamento, c’è un’enorme massa di capitali detenuti dai fondi di private equity che cercherà impiego non appena i prezzi azionari dovessero provare a scendere,” dice Alan Brown, responsabile degli investimenti di Schroders a Londra. “E questo dovrebbe essere di sostegno anche qualora venissero alla ribalta degli elementi negativi.”

Il Fed Model: facile e universale

Che dire? C’è di che entusiasmarsi. O forse la storia che ci viene raccontata è troppo bella per essere vera. Ma procediamo con ordine. Cosa sia il Fed Model, si capisce facilmente. E’ semplicemente il rapporto tra rendimento nominale del titolo del Tesoro decennale e l’earning yield (il rapporto utili/prezzi, ossia l’inverso del P/E) dell’S&P 500, assunto come benchmark del mercato azionario.

Come venga usato, è pure abbastanza chiaro dall’esempio che ho citato. Il Fed Model mette insieme un benchmark obbligazionario con un benchmark azionario e si spinge a fare ben tre supposizioni:

a) bond e azioni sono direttamente confrontabili;

b) un rapporto di 1:1 tra i rendimenti di un titolo di stato decennale e l’earning yield del mercato azionario è corretto, cosicché quando l’earning yield è superiore al bond yield le azioni sono da considerare attraenti perché relativamente sottovalutate, e viceversa;

c) da tale confronto è desumibile un fair value, un target di prezzo fondamentalmente appropriato per il mercato azionario.

E’ naturale porsi, a questo punto, due domande. Ma il Fed Model funziona? E se funziona, ha senso? Entrambe sono importanti.

Un modello potrebbe infatti mostrare un apparente valore predittivo – per un limitato periodo di tempo – per puro caso. Scherzi del genere sono frequenti (viene alla mente il bellissimo Giocati dal caso, di Nassim Nicholas Taleb) e alcuni sono anche ben noti, come la correlazione tra mercati azionari e lunghezza delle gonne alla moda o la squadra vincitrice del Superbowl.

Per accettare un modello che sembra funzionare bisogna riuscire a trovarne un senso che sia non contraddittorio con le conoscenze già acquisite. O, al limite, riuscire a dimostrare perché il nuovo modello sia superiore a quelli precedenti.

Ma prima di cercare di rispondere a queste due, essenziali domande, vediamolo all’opera, il Fed Model. Il grafico che segue è uno dei primi che mi è capitato sottomano attraverso una rapida ricerca su Internet, è opera di New Arc Investments, una società di consulenza americana, ed è tratto da un post apparso su SeekingAlpha a fine 2006.

Sopra e sotto la linea mediana, che indica l’equivalenza tra rendimenti dei Treasury decennali ed earnings yield azionario, viene evidenziata la supposta sopra- e sottovalutazione dell’S&P 500 – con la persistente sottovalutazione tra il 20% e il 45% nell’ultimo quadriennio a dispetto del rally delle Borse.

Ma grafici del tutto uguali si possono trovare dovunque. Il fatto è che per 29,95 dollari lo spreadsheet per calcolare il Fed Model può essere acquistato online, e, a essere franchi, la cifra pare pure eccessiva, dato che realizzare il foglio di calcolo è un lavoro di pochi minuti.

La storia del Fed Model

L’universale diffusione del Fed Model potrebbe stupire. Una rappresentazione grafica del rapporto tra yield obbligazionari e azionari era contenuta a pag. 27 del rapporto di 28 pagine consegnato dalla Fed al Congresso americano nel luglio 1997. Seguiva di 7 mesi il famoso avvertimento di Alan Greenspan (nella foto in alto) sull’”irrazionale esuberanza delle Borse ed era parimenti mirata ad ammonire gli investitori sull’apparente stato di sopravvalutazione dei mercati azionari.

Il grafico pubblicato nel documento della Fed, in posizione molto defilata, aveva però un suo indiscutibile fascino e infatti attrasse l’attenzione di un analista di grido, Ed Yardeni, allora guru di Deutsche Morgan Grenfell, oggi chief strategist di Oak Associates. Yardeni cominciò a pubblicarne una sua versione, battezzandola Fed Model (a dispetto del fatto che la Fed non fece mai nulla per riconoscerne la paternità o confermarne la validità).

La popolarità di Yardeni diede immediato risalto al nuovo modello, il cui successo venne poi sancito dal crollo dei rendimenti obbligazionari a partire dal 2001. Quale modo migliore per aiutare l’industria finanziaria mondiale a risollevarsi dalla polvere del bear market del 2000-2002 di un modello di valutazione semplice, popolare, dal nome prestigioso, e che indicava una (persistente) sottovalutazione dei mercati azionari del 30-40%?

Ma basta con le digressioni. E’ ora di tornare alle due questioni essenziali. Il Fed Model funziona? E se funziona, ha senso? Tenterò di dare una risposta nella seconda parte di questo articolo.

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