l'Investitore Accorto

Per capire i mercati finanziari e imparare a investire dai grandi maestri

Archivi per il mese di “Maggio, 2007”

Analisi strategica del ciclo I

Lo stato d’animo dell’investitore accorto alle prese con l’analisi del ciclo dovrebbe essere innanzitutto di diffidenza. I su e giù dell’economia e delle Borse sono infatti sin troppo discussi e analizzati in tutte le salse, con in genere un unico, negativo risultato: quello di indurre l’investitore a entrare e uscire continuamente dal mercato, facendo lievitare costi e tasse a scapito dei rendimenti.

Piuttosto del nevrotico e confuso agitarsi, sulla spinta delle ondate emotive che spesso colorano le analisi du jour – o quanto meno l’interpretazione che si finisce per darne – è molto meglio un atteggiamento distaccato e passivo, attento alla corretta definizione dell’asset allocation e al periodico bilanciamento del portafoglio.

Come ho però cercato di evidenziare in un post di qualche giorno fa, Cicli di mercato e rendimenti, l’investimento passivo soffre pure di una seria limitazione in tempi di Borse molto sopravvalutate: assicura i rendimenti del mercato, che però rischiano di essere negativi anche per periodi ventennali, e accettabili solo nel lunghissimo termine (50 anni o più).

Crisi di fiducia e recessioni

Come se ne esce? Forse con quella che potrei chiamare l’analisi strategica del ciclo. Mi spiego.

A studiare un po’ di storia dei mercati azionari, si vede che i grandi ribassi (dei piccoli, e cioè delle fisiologiche correzioni di un bull market, è meglio non curarsi) hanno, grosso modo, due tipi di fattori scatenanti: crisi di fiducia che diventano in breve veri attacchi di panico, come nel 1987 o nel 2001, dopo l’attentato alle Torri Gemelle, e le recessioni economiche, come – per stare agli ultimi 40 anni – quelle del 1970, 1974, 1980, 1982, 1990 e 2001.

Nel primo caso, i crolli di mercato sono improvvisi e convulsi, ma anche effimeri. Nel giro di qualche mese, gli indici ritornano ai livelli di partenza, dopo un terrificante “testacoda” che crea, distrugge, trasferisce enormi ricchezze, lasciando però in aggregato tutto come prima.

Nel secondo caso, l’evoluzione è più tortuosa e gli effetti di più lunga durata: gli indici perdono il 30%, 40%, 50% (o addirittura il 75%, quando partono da condizioni di “bolla” come il Nasdaq nel 2000) nell’arco di 1 o 2 anni e impiegano poi diverso tempo – decenni nel caso delle “bolle” – per tornare ai livelli iniziali.

Prevedere gli improvvisi attacchi di panico del mercato è impossibile (è il caso delle Torri Gemelle) o, per lo meno, estremamente problematico (nell’imminenza del Black Monday del 1987 ci fu chi liquidò le posizioni o andò “corto”, e divenne per questo celebre – ma non sapremo mai quanta parte giocò il caso nella straordinaria tempestività di quelle scelte).

Valutare i rischi di contrazione dell’attività economica, a livello globale o in un sistema-guida come quello americano, è invece possibile. E l’analisi strategica del ciclo solo a questo dovrebbe mirare: consentire all’investitore di non farsi cogliere impreparato dalla recessione, un evento che tende ciclicamente a ripetersi ogni 5-10 anni e la cui singolare rilevanza è data dal fatto di sommare in sé i caratteri della relativa prevedibilità e della brutale traumaticità.

Il mercato come barometro dell’economia?

Si potrebbe obiettare che non c’è barometro migliore del mercato stesso. Quale più tempestivo strumento di valutazione del ciclo dell’analisi tecnica degli indici? Saranno le Borse stesse (o l’analisi intermarket) ad avvertirci che una recessione è alle porte e che è arrivato il tempo di tirare i remi in barca…

Purtroppo le cose non stanno esattamente così. E’ nota la battuta del premio Nobel Paul Samuelson, il quale osservò ormai diversi anni fa come il mercato azionario avesse “previsto nove delle ultime cinque recessioni.”

E’ un’osservazione arguta, che però potrebbe essere forse aggiornata, nel senso inverso (“cinque delle ultime nove…”). Da un po’ di tempo, gli investitori sembrano collettivamente farsi prendere dall’euforia proprio quando una recessione è imminente, e soccombere alla sua ineluttabilità solo quando è tardi, e l’evidenza non può più essere negata.

Forse – ma qui azzardo un’interpretazione più discutibile di altre – nelle nostre economie così dominate dalla finanza, gli interessi tesi a far sì che continui il moto ascendente dei mercati dei capitali si sono fatti tanto pervasivi da mobilitarsi in massa e con evidente quanto momentaneo successo quando la minaccia di un’inversione del trend si profila all’orizzonte.

Sta di fatto che è di solito vano aspettarsi che siano le banche centrali, i governi, l’FMI, l’Ocse o il consenso degli analisti di mercato a lanciare allarmi sull’imminenza di una recessione. Si parlerà di rischi limitati, di “pause” o “rallentamenti” della crescita, di “squilibri” superabili.

Ma a prevedere correttamente una recessione saranno di solito pochi, bravi analisti fuori dal coro. Ed è forse per questo che il mercato azionario, espressione del consenso dei molti, si sta sempre più dimostrando, come nota l’economista Gene Epstein, un “indicatore anticipatore eccellente per quel che riguarda l’avvio di una ripresa economica, ma alquanto insensibile quando si tratta del profilarsi di una recessione.”

Vedremo in una seconda parte come questa analisi può essere applicata all’attuale fase del ciclo.

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Utili record e utili normalizzati

E’ evidente che un investitore che voglia prestare attenzione al valore (e che, per stare a una famosa metafora di Benjamin Graham, si preoccupi di acquistare titoli per il suo portafoglio “con lo stesso atteggiamento con cui si compra la verdura piuttosto che il profumo”) dovrebbe cercare in primo luogo di darsi un buon metodo di valutazione. Uno degli strumenti più intuitivi e universalmente utilizzati è il rapporto prezzo/utili (o price/earnings, P/E), che sta semplicemente a indicare a quale multiplo degli utili sia quotato un titolo o un indice azionario.

Non si tratta di un calcolo del valore intrinseco, che per lo più viene fatto – tra non poche difficoltà – attualizzando il valore dei flussi di cassa attesi da un investimento; ma di un più che accettabile metodo di valutazione relativa. Posto che ci siano degli utili, metterli in relazione al prezzo è un modo facile per confrontare il “valore” di un titolo (o di un indice) con il suo passato, o con altri titoli (o indici).

Problemi nell’uso del P/E

Ci sono però alcuni problemi. Per le singole azioni, due fattori di complicazione sono il tasso di crescita atteso e il livello di rischio.

Gli investitori sono in genere disposti a pagare prezzi più elevati per titoli di società a più alta crescita, o finanziariamente più solide e meno esposte alle fluttuazioni del ciclo. E quando si confrontano titoli diversi, e in settori diversi, bisogna tenerne conto. Multipli più o meno elevati possono rispecchiare la differente qualità di un titolo rispetto a un altro, piuttosto che la sua convenienza.

Se poi si paragona un titolo o un indice con il suo passato, ammesso che l’uno e l’altro non si siano radicalmente trasformati nel tempo, ci si trova a che fare con la difficoltà di come tenere conto del ciclo economico (schematicamente rappresentato nella figura in alto). Ed è questa la questione che vorrei un po’ approfondire, perché di grande – e spesso trascurata – attualità.

Cominciamo con una citazione da un articolo apparso di recente su Bloomberg.com. Jim Paulsen di Wells Capital Management, riferisce l’articolo, è bullish e pensa che i mercati azionari procederanno al rialzo anche se la Fed non taglierà i tassi.

Paulsen “vede nelle valutazioni convenienti il fattore che ha dato avvio al rimbalzo delle ultime settimane, e che ha limitato a meno del 10% quasi tutte le correzioni del bull market degli ultimi 4 anni. Una settimana prima che il bull market cominciasse nell’ottobre 2002, i titoli delle società dell’S&P 500 venivano scambiati a 26,5 volte gli utili degli ultimi 4 trimestri. Ora, il multiplo P/E è sceso a 17,1 volte.”

Jim Paulsen è un analista molto conosciuto e stimato. E il suo giudizio è quanto di meno controverso si possa trovare di questi tempi a Wall Street. Non parlo della sua previsione che le Borse continueranno a salire, ma del convincimento che siano a buon prezzo. Le cose stanno davvero così? E che senso ha confrontare il P/E di oggi con quello di 4 anni fa?

P/E e ciclo economico

Il multiplo P/E, per definizione, è dato dal livello dei prezzi e dal livello degli utili. I prezzi possono dipendere dall’ottimismo degli investitori, dalle attese di crescita, dai tassi d’interesse (tutti fattori in qualche modo connessi tra loro). E gli utili?

Beh, gli utili dipendono dalle vendite, che in aggregato crescono a tassi in genere allineati a quelli del PIL (cioè dell’economia nel suo complesso), e dai margini, che misurano la percentuale di profitto per ogni unità di fatturato.

I margini hanno due caratteristiche, che ogni investitore accorto dovrebbe tenere sempre ben presenti: sono volatili, perché sono molto sensibili all’andamento del ciclo, e tendono sempre a regredire verso la media. Ciò vuol dire che l’investitore accorto dovrebbe scontare una loro discesa quando sono molto elevati e mettere invece in conto una loro ripresa quando sono depressi.

Dove stiano oggi i margini (delle società dell’S&P 500) ce lo dice chiaramente il grafico qui sotto, ripreso da un’esemplare analisi di William Hester sul sito HussmanFunds.com :

Negli ultimi 50 anni i margini netti sono oscillati tra il 5,5% e il 7,5%. Ma di recente hanno toccato l’8,5%, un livello record.

Alla spinta espansiva del ciclo si sono uniti, come nota Hester, almeno due fattori eccezionali: l’erosione dei salari, calati, dal 2000 a oggi, di 3 punti di PIL in parte per effetto del processo di globalizzazione, e l’anemico andamento degli investimenti, rimasti al palo dopo gli eccessi di fine anni ’90.

Entrambe queste tendenze sono però insostenibili: non è pensabile che i redditi dei lavoratori continuino a comprimersi a beneficio dei profitti aziendali, e non è pensabile che le imprese possano seguitare a crescere senza investire adeguatamente.

Tornando alla citazione iniziale di Jim Paulsen, dovrebbe ormai essere chiaro perché confrontare il P/E di oggi con quello di fine 2002 non ha senso. Allora l’economia stava uscendo dalla recessione e i margini erano ancora depressi (attorno al 6,0%), oggi siamo al picco di un ciclo che ha battuto ogni record.

Allora era ragionevole prevedere una forte ripresa degli utili, oggi è altrettanto ragionevole mettere in conto quanto meno una loro stagnazione. Sempre Hester ci offre un’efficace rappresentazione grafica di questo principio, tanto semplice quanto sistematicamente ignorato dalla gran parte degli investitori.

Alla linea blu, rappresentativa dei margini di profitto dal 1955 a oggi, Hester ha qui sovrapposto, in rosso, una linea che indica i tassi di crescita degli utili nel triennio successivo. La scala è invertita, cioè quando il tracciato punta verso l’alto i profitti calano, e quando punta verso il basso i profitti crescono.

Il messaggio è infausto, perché evidenzia come, a meno di un’improvvisa discontinuità con gli ultimi 50 anni, gli utili sono destinati a crollare. E se questo accadrà, o i P/E andranno alle stelle, o i prezzi di Borsa dovranno scendere.

Conclusione: P/E e utili normalizzati

Per tirare le somme, la lezione su cui mi premeva riflettere un po’ è che i P/E possono essere un utile strumento di valutazione, ma solo se sono normalizzati, o, in altre parole, se sono rettificati per tenere conto del ciclo.

Uno studio autorevole di P/E rettificato per il ciclo, o “Cyclically Adjusted P/E” (CAPE), ce lo dà Andrew Smithers:

A fine 2006 il P/E del mercato azionario americano era del 60% circa superiore alla sua media di lungo periodo, al di sotto del picco estremo toccato nel 2000 ma sopra i precedenti massimi storici del 1901, 1929 e 1965.

Nulla esclude che il mercato possa ancora salire, e che, almeno per un altro po’, Jim Paulsen sia in grado di “dimostrare” di avere ragione. Ma l’investitore accorto farebbe bene a ricordare che, alla lunga, le valutazioni contano. E che il mercato non è a buon prezzo, anzi. A parte un breve periodo a cavallo di secolo, non è mai stato così caro.

Il value investing secondo Warren Buffett

C’è un divertente e illuminante testo di Warren Buffett sul value investing, ed è la conferenza che tenne nel 1984 alla Columbia University per commemorare i 50 anni dalla pubblicazione di “Security Analysis“, l’opera di Benjamin Graham e David Dodd che creò un metodo per valutare le aziende e segnò la nascita dell’approccio agli investimenti basato sul “valore”. La conferenza s’intitola “I Superinvestitori di Graham & Doddsville” e prende le mosse dall’analisi delle straordinarie performance ottenute da un gruppo di investitori e amici, uniti da una comune appartenenza intellettuale: l’aver frequentato i corsi di Graham e Dodd alla Columbia University e perseguito poi, in modi spesso originali, l’identica ricerca di discrepanze tra il valore intrinseco delle aziende e i prezzi delle relative azioni.

Per i teorici dell’efficienza del mercato, osserva Buffett, l’idea che esistano titoli sottovalutati è anatema. Per costoro, fare meglio del mercato, anno dopo anno, è solo una questione di fortuna dato che nulla può meglio riflettere, in ogni singolo istante, il valore di un’azienda della sua quotazione di Borsa.

Si tratta, per Buffett, di un approccio astrattamente accademico che fa a pugni col buon senso e con la sua esperienza dei mercati. La parte conclusiva del discorso, che qui riporto, espone, in toni a tratti ironici e sempre accattivanti, il fermo convincimento nella perdurante superiorità della lezione di Graham e Dodd.

I superinvestitori di Graham & Doddsville

[…] Sono convinto che nel mercato c’è molta inefficienza. Gli investitori di “Graham & Doddsville” non hanno fatto altro che sfruttare con successo le divergenze tra prezzo e valore.

Quando il prezzo di un’azione può essere influenzato dal “gregge” degli investitori, e fissato al margine dalla persona più emotiva, o più avida o più depressa, è difficile sostenere che il prezzo di mercato sia sempre razionale. In realtà, i prezzi di mercato sono spesso privi di senso.

Vorrei dire una cosa importante a proposito del rapporto tra rischio e rendimento. Rischio e rendimento hanno a volte una correlazione positiva. Se qualcuno mi dicesse: “Ecco qui un revolver a sei colpi con dentro un solo proiettile. Perché non fai ruotare il tamburo e premi una volta il grilletto? Se sopravvivi ti do un milione di dollari.” Rifiuterei l’offerta, ribattendo forse che un milione di dollari non è abbastanza.

Questo qualcuno potrebbe allora offrirmi 5 milioni di dollari per premere il grilletto due volte. Ecco, in questo caso ci sarebbe una correlazione positiva fra rischio e ricompensa!

L’esatto opposto è vero nel caso del value investing. Acquistare un biglietto da un dollaro a 60 centesimi è più rischioso che acquistarlo a 40. Eppure la ricompensa attesa è maggiore nel secondo caso che nel primo. Maggiore è il ritorno potenziale, nel portafoglio orientato al valore, minore è il rischio.

Facciamo un rapido esempio. Nel 1973, il gruppo Washington Post aveva una capitalizzazione di Borsa di 80 milioni di dollari. Ma i suoi asset avrebbero potuto essere venduti, in quegli stessi giorni, a uno qualsiasi tra una decina almeno di possibili acquirenti per non meno di 400 milioni di dollari, e probabilmente per molto di più.

Il gruppo controllava il Post, Newsweek, e diversi canali televisivi in mercati importanti. Queste stesse proprietà valgono ora 2 miliardi di dollari, ed è chiaro che chi le avesse comperate per 400 milioni non si sarebbe comportato da pazzo.

Ora, se il crollo del titolo fosse stato ancora più forte, tale da ridurre la capitalizzazione a 40 milioni invece di 80, il beta sarebbe stato più alto. E per quanti pensano che il beta misuri il rischio, il prezzo più basso avrebbe reso il titolo più rischioso.

Ma questa è una logica da Alice nel Paese delle Meraviglie! Non ho mai capito perché dovrebbe essere più rischioso comperare proprietà del valore di 400 milioni di dollari al prezzo di 40 milioni piuttosto che a quello di 80 milioni […]

Certo, bisogna avere le conoscenze che ti consentono di arrivare a una stima complessiva del valore delle attività sottostanti. Ma mica occorre una precisione millimetrica.

Questo intendeva Graham quando parlava di margine di sicurezza. Non cerchi di acquisire attività del valore di 83 milioni per 80 milioni. Ti lasci un margine enorme. Quando costruisci un ponte, insisti che possa reggere 15 tonnellate, ma poi ci fai passare carichi da 5 tonnellate. Lo stesso principio vale per gli investimenti.

Per concludere, qualcuno tra voi più dotato di senso degli affari potrebbe chiedersi perché io dica queste cose. Far crescere il numero dei convertiti all’approccio orientato al valore ridurrà per forza di cose lo scarto fra prezzo e valore.

Ma quel che posso dirvi è che il segreto è noto ormai da 50 anni, da quando Ben Graham e David Dodd scrissero “Security Analysis”. Eppure, non ho notato nessuna tendenza a una maggiore popolarità del value investing, nei 35 anni in cui io l’ho praticato.

Sembra esserci qualche perverso tratto umano che rende difficili le cose semplici. Il mondo accademico, anzi, nell’ultimo trentennio si è allontanato ancor di più dall’insegnamento del value investing. Ed è probabile che le cose continuino così.

Le navi circumnavigheranno il pianeta, ma i membri della Società della Terra Piatta non faranno che crescere di numero. E quanti avranno letto Graham & Dodd continueranno a prosperare.

(la traduzione e le sottolineature sono mie)

Per una politica meno barocca

Fu Luigi Barzini, nel suo magnifico libro “Gli Italiani”, a parlare del carattere “perennemente barocco” delle vicende patrie degli ultimi quattro secoli: “inutilmente complicate, oziose, capricciose ed eccentriche.” Il barocco cui si riferiva Barzini era quello definito da Benedetto Croce come “ricerca dell’inaspettato e dello stupefacente”, uno stile non a caso elevato alle sue massime espressioni proprio da noi italiani – “lodati come popolo d’artisti, ma a volte disprezzati come ciarlatani e clown”. Continua a leggere…

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