l'Investitore Accorto

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Il value investing secondo Warren Buffett

C’è un divertente e illuminante testo di Warren Buffett sul value investing, ed è la conferenza che tenne nel 1984 alla Columbia University per commemorare i 50 anni dalla pubblicazione di “Security Analysis“, l’opera di Benjamin Graham e David Dodd che creò un metodo per valutare le aziende e segnò la nascita dell’approccio agli investimenti basato sul “valore”. La conferenza s’intitola “I Superinvestitori di Graham & Doddsville” e prende le mosse dall’analisi delle straordinarie performance ottenute da un gruppo di investitori e amici, uniti da una comune appartenenza intellettuale: l’aver frequentato i corsi di Graham e Dodd alla Columbia University e perseguito poi, in modi spesso originali, l’identica ricerca di discrepanze tra il valore intrinseco delle aziende e i prezzi delle relative azioni.

Per i teorici dell’efficienza del mercato, osserva Buffett, l’idea che esistano titoli sottovalutati è anatema. Per costoro, fare meglio del mercato, anno dopo anno, è solo una questione di fortuna dato che nulla può meglio riflettere, in ogni singolo istante, il valore di un’azienda della sua quotazione di Borsa.

Si tratta, per Buffett, di un approccio astrattamente accademico che fa a pugni col buon senso e con la sua esperienza dei mercati. La parte conclusiva del discorso, che qui riporto, espone, in toni a tratti ironici e sempre accattivanti, il fermo convincimento nella perdurante superiorità della lezione di Graham e Dodd.

I superinvestitori di Graham & Doddsville

[…] Sono convinto che nel mercato c’è molta inefficienza. Gli investitori di “Graham & Doddsville” non hanno fatto altro che sfruttare con successo le divergenze tra prezzo e valore.

Quando il prezzo di un’azione può essere influenzato dal “gregge” degli investitori, e fissato al margine dalla persona più emotiva, o più avida o più depressa, è difficile sostenere che il prezzo di mercato sia sempre razionale. In realtà, i prezzi di mercato sono spesso privi di senso.

Vorrei dire una cosa importante a proposito del rapporto tra rischio e rendimento. Rischio e rendimento hanno a volte una correlazione positiva. Se qualcuno mi dicesse: “Ecco qui un revolver a sei colpi con dentro un solo proiettile. Perché non fai ruotare il tamburo e premi una volta il grilletto? Se sopravvivi ti do un milione di dollari.” Rifiuterei l’offerta, ribattendo forse che un milione di dollari non è abbastanza.

Questo qualcuno potrebbe allora offrirmi 5 milioni di dollari per premere il grilletto due volte. Ecco, in questo caso ci sarebbe una correlazione positiva fra rischio e ricompensa!

L’esatto opposto è vero nel caso del value investing. Acquistare un biglietto da un dollaro a 60 centesimi è più rischioso che acquistarlo a 40. Eppure la ricompensa attesa è maggiore nel secondo caso che nel primo. Maggiore è il ritorno potenziale, nel portafoglio orientato al valore, minore è il rischio.

Facciamo un rapido esempio. Nel 1973, il gruppo Washington Post aveva una capitalizzazione di Borsa di 80 milioni di dollari. Ma i suoi asset avrebbero potuto essere venduti, in quegli stessi giorni, a uno qualsiasi tra una decina almeno di possibili acquirenti per non meno di 400 milioni di dollari, e probabilmente per molto di più.

Il gruppo controllava il Post, Newsweek, e diversi canali televisivi in mercati importanti. Queste stesse proprietà valgono ora 2 miliardi di dollari, ed è chiaro che chi le avesse comperate per 400 milioni non si sarebbe comportato da pazzo.

Ora, se il crollo del titolo fosse stato ancora più forte, tale da ridurre la capitalizzazione a 40 milioni invece di 80, il beta sarebbe stato più alto. E per quanti pensano che il beta misuri il rischio, il prezzo più basso avrebbe reso il titolo più rischioso.

Ma questa è una logica da Alice nel Paese delle Meraviglie! Non ho mai capito perché dovrebbe essere più rischioso comperare proprietà del valore di 400 milioni di dollari al prezzo di 40 milioni piuttosto che a quello di 80 milioni […]

Certo, bisogna avere le conoscenze che ti consentono di arrivare a una stima complessiva del valore delle attività sottostanti. Ma mica occorre una precisione millimetrica.

Questo intendeva Graham quando parlava di margine di sicurezza. Non cerchi di acquisire attività del valore di 83 milioni per 80 milioni. Ti lasci un margine enorme. Quando costruisci un ponte, insisti che possa reggere 15 tonnellate, ma poi ci fai passare carichi da 5 tonnellate. Lo stesso principio vale per gli investimenti.

Per concludere, qualcuno tra voi più dotato di senso degli affari potrebbe chiedersi perché io dica queste cose. Far crescere il numero dei convertiti all’approccio orientato al valore ridurrà per forza di cose lo scarto fra prezzo e valore.

Ma quel che posso dirvi è che il segreto è noto ormai da 50 anni, da quando Ben Graham e David Dodd scrissero “Security Analysis”. Eppure, non ho notato nessuna tendenza a una maggiore popolarità del value investing, nei 35 anni in cui io l’ho praticato.

Sembra esserci qualche perverso tratto umano che rende difficili le cose semplici. Il mondo accademico, anzi, nell’ultimo trentennio si è allontanato ancor di più dall’insegnamento del value investing. Ed è probabile che le cose continuino così.

Le navi circumnavigheranno il pianeta, ma i membri della Società della Terra Piatta non faranno che crescere di numero. E quanti avranno letto Graham & Dodd continueranno a prosperare.

(la traduzione e le sottolineature sono mie)

Value investing o investimento passivo?

Da oltre 50 anni, da quando Harry Markowitz mise a punto la sua teoria di selezione del portafoglio, si confrontano sui mercati finanziari due strategie d’investimento che fanno capo a “visioni” contrapposte. Da una parte ci sono i cultori del value investing (scuola nata negli anni ’30 con Benjamin Graham), che pensano di poter sfruttare le irrazionali fluttuazioni dei prezzi – prodotte dall’emotivo oscillare degli investitori tra euforia e panico – identificando a proprio vantaggio le discrepanze tra i prezzi stessi e i “valori” sottostanti. Dall’altra ci sono i sostenitori delle aspettative razionali e dell’efficienza dei mercati, visti come imbattibili meccanismi di sconto. Continua a leggere…

Ma negli investimenti ci vuole fortuna?

Se anche i migliori a volte falliscono (viene alla mente il crack del fondo LTCM, che nel 1998 fece sprofondare nel fango 2 premi Nobel per l’Economia e uno dei più noti bond trader al mondo, ricoprendo di schizzi anche alcune banche centrali), forse tutto quello che davvero occorre, negli investimenti come in altre cose della vita, è un po’ di fortuna.

Il pensiero, comune ai tanti che affrontano le imprevedibili contorsioni dei mercati come se si trattasse di una puntata al lotto o al totocalcio, mi ha lambito la mente mentre sfogliavo un libro divertente e di successo, “Un matematico gioca in Borsa”, di John Allen Paulos.

A un certo punto l’autore scrive:

La logica del mercato azionario è estremamente riduttiva. Si può avere ragione per i motivi sbagliati e aver torto per i motivi giusti, ma per il mercato si ha solo ragione o si ha solo torto. Pensate alla storiella del maestro che chiede agli scolari: ‘Chi di voi sa indicarmi due pronomi?’ Visto che nessuno alza la mano, il maestro si rivolge a Tommy (Pierino nella versione italiana di questa storiella, ndr), che gli risponde: ‘Chi, io?’ Per il mercato, Tommaso ha ragione e quindi diventa ricco, anche se difficilmente prenderà ottimo in inglese.

Divertente. Ma le cose stanno davvero così? La logica riduttiva, in questo caso, potrebbe essere quella di Paulos, abbacinato dall’osservazione – vera ma parziale – che nel breve periodo l’investitore può avere ragione per i motivi sbagliati, o torto per quelli giusti, e ritrovarsi a essere, suo malgrado, vittima o beneficiario delle imperscrutabili fluttuazioni dei mercati.

Ma nel lungo periodo? Warren Buffett, LTCM, lo speculatore improvvisato o il sottoscritto siamo tutti sullo stesso piano, tutti ugualmente esposti alla possibilità di “avere ragione per i motivi sbagliati e aver torto per i motivi giusti?”

Investire è un’attività probabilistica

In verità non è così, come argomenta con efficacia Michael Mauboussin (nella foto in alto), chief strategist di Legg Mason e docente alla Columbia University, nel suo “More than you know”, un libro (purtroppo non ancora tradotto in italiano) tra i più stimolanti che abbia letto negli ultimi tempi.

Investire nel lungo periodo è un’attività non casuale ma probabilistica. Ci sono filosofie d’investimento – come quella sposata da Warren Buffett – che funzionano perché bene interpretano la natura dei mercati (Buffett è da oltre 40 anni che guadagna in media più del 20% l’anno, e diversi altri discepoli del value investing hanno ottenuto risultati paragonabili), e filosofie d’investimento – come quella adottata da LTCM – che non funzionano (il fondo delle superstar, nato per battere tutti i record, andò gambe all’aria dopo solo quattro anni di attività).

E’ qui dunque che all’investitore conviene soffermarsi: sulla bontà della filosofia e delle procedure che mette in campo piuttosto che sui singoli, estemporanei risultati. A guardar bene, infatti, una logica nei mercati c’è. E non è quella “riduttiva” di Allen Paulos, ma quella ancorata ai due pilastri del “valore” e del “rischio.”

Nulla aiuta ad avere successo quanto imparare a identificare gap tra prezzi (di mercato) e valore (dei titoli quotati) e ad assicurarsi correttamente contro il rischio, senza mai smarrire la consapevolezza della natura probabilistica delle scelte d’investimento.

L’aneddoto che Mauboussin racconta, per mettere in rilievo la differenza tra procedimento e risultato, e l’importanza almeno pari del primo rispetto al secondo, è in apparenza simile a quello scelto da Allen Paulos, ma conduce a conclusioni opposte.

Siamo a Las Vegas, e c’è un giocatore impegnato in una partita di blackjack. Con un diciassette in mano, il giocatore chiede ancora una carta, tra lo sbigottimento degli astanti e dello stesso dealer. La carta, per un fortunoso bacio della sorte, è un quattro. E il dealer commenta: Bel colpo!” Nota Mauboussin: sì, certo, bel colpo. Se lavori per il casinò, è così che vuoi che ogni giocatore si comporti.

Il “bel colpo”, insomma, è una nozione ambigua. Può anche essere frutto di un approccio ai mercati che prima o poi porta solo alla rovina.

La conclusione allora è che in un campo come quello degli investimenti, dove si opera sempre sulla base di informazioni incomplete e in assenza di certezze, le scelte vanno valutate non solo sulla base dei risultati ma anche della qualità del processo decisionale. E l’investitore accorto farebbe bene a preoccuparsi di elaborare un corretto e sistematico approccio ai mercati, disinteressandosi della fortuna.

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