l'Investitore Accorto

Per capire i mercati finanziari e imparare a investire dai grandi maestri

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Un bear market azionario è forse alle porte?

Che faranno, a questo punto, i mercati azionari? Già in due occasioni, negli ultimi due mesi, ho cercato di combinare analisi tecnica e analisi macroeconomica per arrivare a una risposta – sempre partendo dalla premessa che le Borse, come più volte ho cercato di dimostrare in questo blog, sono in generale sopravvalutate. Per due volte gli studi a cui ho fatto riferimento (non miei, io faccio il giornalista e non l’analista tecnico o l’economista) si sono dimostrati attendibili. E’ comprensibile la tentazione di volerci riprovare, con l’accortezza di tenere ben presente che nessuno ha la sfera di cristallo. E che non è sulle previsioni di breve periodo che si può basare un’accorta gestione del portafoglio.

Vediamo allora cosa ho già scritto e come quel quadro può essere aggiornato.

Due analisi azzeccate

Il 9 ottobre, subito prima che i mercati Usa ripiegassero dai massimi, nel post L’analisi tecnica svela un rally di Borsa sospetto, scrivevo così:

Volume e ampiezza ci raccontano storie simili. Il rally dell’ultimo mese e mezzo appare sospetto, perché ha avuto scarsa partecipazione di investitori (bassi volumi) e di titoli (linea Advance-Decline divergente rispetto ai prezzi).”

Notavo che si trattava di caratteristiche “tipiche di un top di mercato e concludevo: “E’ probabile che molti investitori abbiano deciso di stare alla finestra in attesa delle trimestrali del terzo trimestre […]. In ogni caso, la conclusione da trarre, per ora, è che di questo rally, e della grancassa mediatica che ha salutato i nuovi massimi di Wall Street, è giusto essere scettici.”

Il 21 ottobre, subito dopo il “mini-crash” di venerdì 19 ottobre, scrivevo, dopo aver lasciato la parola a due dei miei analisti preferiti, Brett Steenbarger e Paul Kasriel:

“Il ‘mini-crollo’ di venerdì ha cominciato a ristabilire un clima di mercato meno irrazionale e più rispondente ai fondamentali. I nuovi massimi di molti indici azionari riflettevano scommesse speculative ed eccessi di ottimismo di una parte sempre meno rappresentativa dell’universo degli operatori. In questa fase, è giusto invece essere dubbiosi, incerti e anche un po’ timorosi. E’ possibile, e forse probabile, che i mercati azionari debbano ritestare i minimi di agosto prima di decidere sul serio il loro corso futuro” […]

Al test dei minimi di agosto siamo ora arrivati. E il contesto, sia tecnico che macroeconomico, come ci dicono sempre Steenbarger e Kasriel, si va deteriorando.

Un mercato sempre più fragile

In un post pubblicato mercoledì sul suo blog Traderfeed, Steenbarger osserva come la flessione degli indici nelle ultime settimane sia stata accompagnata da:

a) la continua espansione del numero di titoli che vanno a segnare nuovi minimi a 52 settimane (New Low);

b) l’incessante debolezza dei settori più penalizzati del mercato (l’indice del settore bancario ha perforato i minimi di agosto);

c) l’amplificarsi di segnali di flight to safety, e cioè di avversione al rischio e ricerca della sicurezza, come ad esempio la corsa all’acquisto di titoli di Stato, che ha spinto i rendimenti del T-bond decennale sotto il 4% per la prima volta dal 2005.

Steenbarger ammette che la sua ipotesi interpretativa, a partire dall’estate, era stata che una correzione fosse alle porte, ma non un bear market.

Fino a qualche settimana fa era sua convinzione che il test dei minimi di agosto, da lui previsto, avrebbe potuto risolversi positivamente, grazie alle forti iniezioni di liquidità da parte delle banche centrali e alla solidità dei titoli a larga capitalizzazione.

Ma ora Steenbarger osserva come l’espansione dei New Low – e la fragilità tecnica che questo indicatore denuncia – riguardi non più solo il NYSE, e cioè la generalità del mercato, ma anche l’S&P 500, ossia le large cap. “Io seguo i miei indicatori e non compro un mercato dove i New Low sono in aumento.”

La conclusione di Steenbarger è che “dalla fine della scorsa settimana, i segnali di debolezza si stanno intensificando, non riducendo, e questo per i Tori (gli ottimisti) deve essere un motivo di preoccupazione.”

Una recessione difficile da evitare

Se il quadro tecnico peggiora, lo stesso si può dire dei fondamentali macroeconomici.

I rischi di recessione, come mettono in chiaro Kasriel e il suo team a Northern Trust, sono in aumento.

E’ di ieri l’ultimo aggiornamento del LEI (o superindice economico, com’è conosciuto in Italia). Dell’importanza di questo indicatore, che ha correttamente predetto, con un trimestre circa di anticipo, tutte le recessioni americane degli ultimi 50 anni, con l’unica eccezione di un falso segnale nel 1966, ho già scritto nel post L’economia Usa e lo spettro della recessione .

Ecco il grafico, che riprendo da Northern Trust (le recessioni sono rappresentate dalle bande grigie):

Come spiega Asha Bangalore, dopo un effimero rimbalzo nel terzo trimestre, il LEI è tornato a spingersi in territorio negativo. E le prospettive sono di ulteriore indebolimento, visto che uno dei pochi elementi di relativa forza nel dato pubblicato ieri è stato l’andamento del mercato azionario a ottobre. Ma sappiamo come Wall Street abbia poi mutato decisamente rotta a novembre.I segnali infausti provenienti dagli Usa sono, peraltro, numerosi, come ci ricorda Paul Kasriel in un’analisi pubblicata all’inizio di questa settimana.

Tra i più preoccupanti c’è l’andamento delle vendite al dettaglio, scese a ottobre, in termini reali (al netto, cioè, dell’inflazione) dell’1,65% annuo. Quello che sta accadendo, dice Kasriel, è che la crisi del mercato della casa sta finalmente inducendo le famiglie americane a moderare i consumi al fine di rimpinguare livelli di risparmio troppo bassi.

L’impennata del tasso di risparmio è una dinamica che si è manifestata subito prima di tutte le recessioni degli ultimi 40 anni, come evidenzia il grafico che segue:

Sulle prospettive del mercato della casa, all’origine del rallentamento dell’economia e dei patemi delle Borse, non c’è poi da illudersi.I prezzi, da qualche trimestre, hanno cominciato a flettere perché l’offerta di immobili supera la domanda. Ma questo squilibrio è destinato ad aumentare nei prossimi mesi. Insolvenze e pignoramenti sono in rapida ascesa, e spingono una massa crescente di immobili sul mercato.

Il risultato è che le scorte di case invendute, in rapporto al numero di case vendute, hanno già superato i livelli toccati nella recessione del 1990-91 e seguitano a impennarsi, come risulta chiaro dal grafico che segue (il quale mostra, per chi non sappia decifrare l’inglese, che al ritmo attuale di vendita occorrerebbero 10,3 mesi per esaurire le scorte di case invendute):

La caduta dei prezzi delle case, conclude Kasriel, è con ogni probabilità destinata ad accelerare nel 2008, con due effetti negativi. Verrà ulteriormente ridotta la capacità delle famiglie Usa di indebitarsi, e sostenere in questo modo i consumi. E diminuirà ancora il valore del collaterale sottostante all’enorme massa di Asset-backed securities (ABS), su cui Wall Street ha costruito negli ultimi anni quella bolla del credito che con fragore sta ora scoppiando.

Per cercare di evitare una recessione, la Federal Reserve dovrebbe per Kasriel portare i Fed funds al 3,5% entro la metà del 2008. Ma c’è da dubitare che sarà in grado di farlo. Con il petrolio a 100 dollari al barile e il dollaro già così debole, ci sono rischi sia di inflazione che di un collasso del biglietto verde.

Quale può essere la conclusione? Un quadro tecnico e fondamentale in peggioramento, e due enormi bolle – quella della casa e quella del credito – che hanno appena iniziato a sgonfiarsi, mi pare che rendano più credibile, almeno per ora, mettere in conto che le soglie di agosto non reggano a lungo.

Qui da noi hanno già ceduto. Ma importa poco. Anche chi investe a Piazza Affari è su Wall Street che deve tenere puntato lo sguardo.

Borse, tassi e bufale a mezzo stampa

In un lungo articolo che copre due pagine dell’ultimo CorrierEconomia, Giuditta Marvelli si chiede come si possa investire con successo ora che, “dopo quattro anni positivi”, i mercati sono tutti ai massimi. La risposta è che da privilegiare sono ancora le azioni, per due motivi: le valutazioni sono “eque” e poi i tassi a breve, in America, hanno cominciato a scendere. I tagli dei tassi da parte della Federal Reserve, racconta Marvelli, sono “una specie di polizza assicurativa per le Borse“.

La conferma viene dall’amministratore delegato di Meliorbanca private, Giuliano Cesareo: “Quando i tassi americani scendono – e per ora accade – è statisticamente difficilissimo che le azioni vadano male.”

Il bear market dimenticato

Sembra tutto chiaro e quasi banale. Ma le cose stanno davvero così? Anche il più distratto o smemorato degli investitori dovrebbe ricordare cosa accadde tra il 2000 e il 2003, quando l’ultimo ciclo di riduzioni dei tassi da parte della Fed coincise con il più brutale bear market azionario del dopoguerra.

Gli indici di Borsa persero allora tra la metà e i due terzi del loro valore mentre la Fed abbatteva i Fed Funds dal 6,5% all’1,75% nel solo 2001, continuava l’opera con un altro taglio all’1,25% nel novembre 2002 e la completava con un’ultima riduzione all’1% nel giugno del 2003 (per la cronologia, vedi qui).

Nelle rassicurazioni semplicistiche dell’articolo di CorrierEconomia c’è dunque qualcosa che non quadra. Vediamo cosa.

Valutazioni “eque”?

Sulla questione delle valutazioni azionarie, che – o per miopia o per malizia – vengono così spesso descritte come “eque” se non “attraenti”, mi sono già più volte soffermato, da ultimo nel post I multipli di Borsa restano elevati. Continuare a riproporre, come fa anche l’articolo di Marvelli, il multiplo P/E, nella sua massima vaghezza, come una significativa misura di valore è un errore grossolano.

Stimare il giusto valore del mercato non è così elementare. Intanto, come scrive Aswath Damodaran in Investment Fables, Exposing the Myths of “Can’t Miss” Investment Strategies, bisognerebbe essere precisi con il tipo di utili a cui si fa riferimento. “Il più grosso problema con i P/E ratio sono le tante varietà di utili per azione che vengono utilizzate per calcolare il multiplo.”

Esistono – e la lista non è completa – gli utili trailing (degli ultimi quattro trimestri), correnti (dell’ultimo anno finanziario), prospettici (o forward, basati sulle stime degli analisti per il prossimo anno finanziario), fully diluted (che tengono conto dell’esercizio delle stock option assegnate al management), netti, operativi (che non tengono conto delle spese operative) e pro forma (che escludono gli effetti di operazioni straordinarie).

Il malcostume prevalente, negli ultimi 10-15 anni, a mano a mano che si gonfiavano le valutazioni di Borsa, è stato quello di far uso sempre più frequente degli utili prospettici, operativi e pro forma (insomma, tutte le varianti più idonee ad abbassare i multipli P/E), confrontandoli con gli utili netti e correnti del passato: un’opera di maquillage ingannevole ma ben riuscita, che ha finito per generalizzare l’uso di metri di valutazione falsati.

Ma i problemi non finiscono qui. Il P/E è infatti uno strumento di valutazione relativa: lo si usa per fare confronti tra titoli, settori, mercati, oppure tra il presente e il passato. Nel primo caso, la preoccupazione deve essere di uniformare i criteri contabili utilizzati, in modo da non usare “due pesi e due misure”. Nel secondo, è imperativo tenere conto del ciclo. Se no, nei punti di massima o di minima, gli utili tenderanno a essere o insostenibilmente elevati (boom) o straordinariamente depressi (recessione), risultando in multipli P/E insensati e fuorvianti: alti quando i mercati tendono a essere sottovalutati, nel pieno di una recessione; bassi quando i mercati sono sopravvalutati, nelle fasi di euforico boom.

Il P/E, insomma, è un utile strumento di valutazione se si è rigorosi nell’utilizzare un unico metro di riferimento nel calcolare gli utili, e se questi utili vengono poi “normalizzati” tenendo conto del ciclo.

L’ho già scritto, ma vale la pena ripeterlo: uno dei non molti analisti di indubbio prestigio, che seguono con rigore questo tipo di procedura, e rendono poi pubblici i risultati, è Andrew Smithers.

Riproduco qui la serie storica del Cyclically Adjusted P/E (CAPE) dell’S&P 500, che Smithers aggiorna trimestralmente sul suo sito:

Chi pensa che l’S&P 500, come la gran parte degli indici azionari, sia oggi “equamente” valutato dovrebbe riflettere: il mercato è in verità più caro di quanto non sia mai stato nella sua storia, con l’unica, poco rassicurante eccezione del picco stratosferico toccato nel 2000.

Anche a non volersi fidare di Smithers e del suo CAPE, è possibile fare una verifica utilizzando, anziché uno strumento di valutazione relativa, il metodo principe per calcolare il valore intrinseco o fondamentale delle azioni, e cioè il Dividend Discount Model (DDM).

La teoria finanziaria dice che il valore fondamentale di un’azione è dato dal valore attualizzato del flusso di dividendi attesi. La rappresentazione grafica di questo calcolo, applicata all’S&P 500, è stata pubblicata in questi giorni in uno studio della Federal Reserve di San Francisco. Eccola:

La linea tratteggiata rappresenta il valore fondamentale dell’S&P 500, il suo fair value, mentre la linea continua rappresenta il prezzo corrente, al netto dell’inflazione. Anche in questo caso è evidente quanto sopravvalutato sia il mercato azionario di oggi, meno costoso solo rispetto alle punte estreme del 2000. Il grafico della Federal Reserve è simile a quello di Smithers. E consente, con autorevolezza, di descrivere come chiacchiera infondata quella di chi continua a propalare il mito delle valutazioni azionarie attraenti.

Quando i tassi scendono…

Passiamo al secondo punto enfatizzato dall’articolo di CorrierEconomia: “Quando i tassi americani scendono è statisticamente difficilissimo che le azioni vadano male.”

Ho già detto che l’ultimo ciclo di riduzioni del costo del denaro, iniziato negli Usa nel gennaio 2001 e conclusosi nel giugno 2003, rappresenta una recente e flagrante smentita di questa presunta legge del mercato. Resta però interessante chiedersi, anche per rispetto al vecchio (e forse un po’ logoro) detto “Don’t fight the Fed” (“non lottare contro la Fed”) se esista una qualche affidabile correlazione tra movimento dei Fed Funds – i tassi a breve manovrati dalla Federal Reserve – e performance di Borsa.

Uno studio dettagliato, che copre il periodo dal 1955 a oggi, è stato pubblicato qualche mese fa da William Hester su HussmanFunds.com.

I risultati, in sintesi, sono i seguenti:

a) Dal 1955 a oggi ci sono stati 11 cicli (quello appena iniziato è il dodicesimo) in cui la Fed ha ridotto i tassi almeno una volta dopo averli alzati a più riprese. In media, l’S&P 500 ha fatto segnare rialzi annualizzati prossimi al 20% – dunque ben superiori alla media – nei sei, dodici e diciotto mesi successivi al primo taglio. C’è dunque un fondamento alla base del detto “Don’t fight the Fed”.

b) Tuttavia, le reazioni del mercato hanno mostrato una notevole variabilità (com’è evidente da quanto accadde nel 2001-2002), a cui è possibile dare senso se si tiene conto di due altri fattori: valutazioni e curva dei rendimenti (la relazione, cioè, tra tassi a lunga e tassi a breve, che riflette in primo luogo le attese economiche relative a crescita del Pil e inflazione).

Solo se si tiene conto di tassi a breve, valutazioni e attese incorporate nella curva dei rendimenti si può arrivare a una buona interpretazione dei dati.

I risultati sono riassunti nella tabella che segue, per la cui comprensione va subito detto che il P/E utilizzato da Hester è un multiplo dei Peak Earnings, cioè degli utili al picco del ciclo: una modalità di “normalizzazione” degli utili in base al ciclo ideata da John Hussman (vedi qui), e che porta a esiti affini al CAPE di Smithers.

Tre sono le osservazioni da fare:

a) le performance migliori – spesso addirittura esplosive – il mercato azionario le ha offerte in reazione a riduzioni dei tassi che avevano luogo in un contesto di valutazioni depresse (P/PE inferiore a 15), tipicamente verso la fine di un bear market;

b) in subordine, performance positive si sono registrate quando una curva dei rendimenti positivamente inclinata (con tassi a lunga più alti dei tassi a breve, nella tabella YC positively sloped) segnalava attese di una ripresa del ciclo economico;

c) diverso è stato l’esito quando le valutazioni erano elevate e i tagli dei tassi a breve hanno coinciso o fatto seguito a una fase di inversione della curva dei rendimenti (YC inverted), che segnalava attese di stagnazione o recessione: i ritorni del mercato sono stati negativi sia a 6 che a 12 o a 18 mesi (è stato così nel 2001-2002, ma anche nel ciclo di riduzioni dei tassi che accompagnò il bear market del 1968).

Quale di queste tre diverse tipologie è meglio applicabile alla situazione attuale?

Per Hester non ci sono dubbi. L’S&P 500 è scambiato oggi a 18,4 volte i Peak Earnings, un multiplo molto elevato anche se si rinuncia a normalizzare i livelli record dei margini di profitto (operazione che spingerebbe i multipli a livelli ancora più alti).

In secondo luogo, la curva dei rendimenti, nei mesi scorsi, è stata a lungo negativa, esprimendo attese di stagnazione e forse di recessione economica, non certo di ripresa. E’ tornata positiva solo di recente, quando il mercato ha cominciato a scontare una drastica riduzione dei tassi a breve.

Insomma, mercati azionari riccamente valutati e vicini ai massimi, in un contesto in cui i rendimenti obbligazionari segnalavano timori che la crescita lasciasse il passo a una fase di debolezza economica, non hanno storicamente risposto bene all’avvio di un ciclo di riduzioni del costo del denaro.

Era questa la situazione a cavallo tra il 2000 e il 2001. Ed è questa la situazione anche oggi.

L’idea che il mercato azionario sia “equamente” valutato è una bufala. E una bufala è anche l’altra idea che i tagli dei tassi siano, sempre e comunque, una panacea per le Borse.

Previsioni cicliche e strategie del “re dei bond”

PIMCO, il gruppo fondato e guidato da Bill Gross, “il re dei bond” (nella foto), ha aggiornato come fa all’inizio di ogni trimestre le sue previsioni sulla congiuntura e le linee guida della strategia d’investimento. La tesi di fondo è che l’economia americana riuscirà, almeno nel prossimo anno, a evitare la recessione grazie all’intervento della Federal Reserve e al complessivo stato di salute dell’economia mondiale.

I tassi a breve dovrebbero scendere sotto il 4% (dall’attuale 4,75%), consentendo un soft landing, e cioè un atterraggio morbido verso tassi di crescita del Pil modesti, attorno cioè all’1-2%, ma non negativi.

Il raffreddamento dell’economia Usa, frenata dalla crisi del mercato della casa e dall’irrigidimento delle politiche di credito da parte del sistema bancario, si trasferirà anche al resto del globo, senza risparmiare né le economie sviluppate dell’Europa e del Giappone né quelle emergenti dell’Asia e dell’America Latina, nel complesso ancora troppo dipendenti dalla domanda esterna per riuscire a ignorare gli sviluppi in America.

Tuttavia, la condizione di forza dei bilanci pubblici di molti paesi emergenti consentirà loro di fare ricorso a politiche fiscali più espansive in modo da ovviare al prevedibile indebolimento delle esportazioni.

Una generale moderazione dei tassi di crescita avrà benefici effetti sull’inflazione, contribuendo a tenere sotto controllo le pressioni generate dalla corsa dei prezzi delle materie prime.

“Soft landing with modest disinflation”, e cioè atterraggio morbido con modesta disinflazione, è dunque l’idea di fondo.

La strategia d’investimento

Da qui seguono le linee guida della strategia d’investimento, così riassumibili:

a) La discesa dei tassi controllati dalle banche centrali, negli Usa ma anche in Gran Bretagna, porterà a curve dei rendimenti più ripide (curve steepening), che PIMCO intende sfruttare puntando soprattutto sul previsto apprezzamento dei titoli a breve termine.

b) Il rapido e generalizzato allargamento dei credit spread, nel corso degli ultimi mesi, ha creato opportunità nel mercato dei corporate bond, che, per essere correttamente identificate, esigeranno però un’attenta analisi del merito di credito dei singoli titoli. PIMCO ritiene che, in modo selettivo, condizioni di sottovalutazione si siano manifestate nei settori finanziario e dell’auto.

c) Nel mercato delle valute, è prevedibile che il dollaro rimanga debole, per effetto delle politiche reflative che la Federal Reserve sarà costretta a seguire. A ciò farà da contrasto la continua forza di valute come il peso messicano, il rublo russo e il real brasiliano, sostenute da ottimi fondamentali economici e da bilance commerciali in forte avanzo.

d) La salute economica di paesi come Messico, Brasile e Russia, oltre che nella forza delle valute, si dovrebbe tradurre anche in ulteriori miglioramenti del rating del debito pubblico. PIMCO prevede di continuare a sovrappesare l’esposizione verso i titoli obbligazionari emessi da questi paesi in valuta locale: un modo per sommare al previsto apprezzamento delle valute quello derivante dal maggiore merito di credito.

e) La previsione di un’inflazione in moderata attenuazione renderà meno interessanti i titoli obbligazionari indicizzati, come i Tips americani, nei confronti dei quali PIMCO prevede di mantenere un’allocazione invariata, a livelli modesti: si tratta, in ogni caso, di un’utile hedge contro improvvise ed impreviste impennate nella dinamica dei prezzi.

Con circa 700 miliardi di dollari di asset in gestione, PIMCO è uno dei principali attori nel mercato globale del reddito fisso. Le sue sono dunque opinioni che pesano e che, anche quando non sono condivise, è saggio tenere in considerazione.

Il mercato delle idee: Rally, rischi e black box

Nel Mercato delle Idee presento una serie di link ad articoli interessanti. Quelli qui raccolti trattano temi come la crisi finanziaria di agosto, la fuga dal dollaro, il ruolo crescente ma oscuro degli hedge fund, il rally delle materie prime e i rischi d’inflazione, il collasso del mercato americano della casa, le contrastanti valutazioni sulla possibilità che una recessione sia alle porte.

Mercati

Buttonwood su l’Economist si chiede se la crisi finanziaria di agosto assomigli di più a quella del 1990 (collasso delle Casse di Risparmio americane), che sfociò in una recessione e in un pronunciato calo delle Borse, o a quella del 1998 (default russo e crollo del fondo LTCM), che fu seguita da un anno e mezzo di scapigliata speculazione rialzista sull’onda delle riduzioni dei tassi decise dalla Fed (da allora in poi descritte col nomignolo di “Greenspan put”). Non ci vorrà molto per capirlo. Ma il consiglio è di monitorare attentamente tre fattori che potrebbero annunciare l’arrivo di tempi bui: un aumento degli spread sui mercati del credito, una ripresa dell’inflazione, e una fase di improvvisa forza dello yen (che indicherebbe una fuga dal rischio da parte degli investitori più aggressivi, i quali fino ad oggi si sono indebitati in yen per investire con leva su altri mercati). Il primo fenomeno è già accaduto (anche se non nelle dimensioni del 1998), il secondo è diventato più probabile (se ha un senso la corsa a vendere dollari e a comprare oro dopo il recente taglio dei tassi da parte della Fed), ma del terzo, per ora, non c’è traccia. L’appetito per il rischio è dunque ancora elevato. Anche se si sa che sulla stabilità e durevolezza degli appetiti degli investitori non è consigliabile fare affidamento.

Anche Bespoke Investment Group fa confronti, in questo caso di natura grafica e con l’andamento dell’S&P 500 nelle crisi del 1987 e del 1998. Risultato? Come appare evidente (vedi sotto), sembrano esserci davvero pochi paralleli.

Banking Credit Analyst riflette sulle caratteristiche dei flussi d’investimento emersi dalla crisi estiva. I due temi portanti sono “go global” (e cioè diversificazione a livello globale, soprattutto a beneficio dei mercati emergenti) e “via dall’epicentro della crisi” (e cioè mercato immobiliare Usa, mutui subprime e, in genere, il dollaro). I beneficiari di questi flussi sono, nel complesso, i mercati azionario e delle commodities, e le valute più lontane dal dollaro. Per BCA si tratta di trend destinati a durare.

Mark Hulbert è uno specialista dell’analisi del sentiment del mercato, che fa da decenni basandosi soprattutto sulle raccomandazioni degli autori di newsletter finanziarie in America. L’assunto di fondo di tale analisi è che, agli estremi, panico ed euforia sono indicatori contrari: quando ci sono troppi pessimisti il mercato è probabilmente vicino al fondo, e viceversa, quando ci sono troppi ottimisti, un picco non è lontano. Come interpretare, su queste premesse, il rally dell’oro, che a settembre ha varcato di gran corsa la soglia dei 700 dollari l’oncia? Hulbert ha verificato che il sentiment è molto più cauto oggi di quanto non fosse nel maggio del 2006, quando l’oro si spinse una prima volta verso livelli analoghi. Il rally attuale, insomma, sembra poggiare su basi molto più solide.

Ken Fisher, figlio d’arte, grande investitore, e columnist di lungo corso per Forbes, dove tiene una rubrica che ha azzeccato con raro tempismo quasi tutti i grandi punti di svolta dei mercati azionari nell’ultimo ventennio, è rimasto fedele al campo dei Tori durante tutta la crisi estiva delle Borse. Nel suo ultimo articolo per Forbes enuncia “quattro ragioni” alla base della convinzione che quella estiva è stata solo una correzione in un rally destinato a continuare. Meritano di essere attentamente ponderate. Dice Fisher che l’ascesa e poi il crollo dei mercati, nel corso degli ultimi mesi, sono stati troppo ripidi per assomigliare alla fine di un bull market e all’inizio di un bear market. Queste transizioni da un ciclo all’altro sono in genere lente e graduali. In secondo luogo, non esiste bear market che prenda l’avvio da “notizie vecchie” e risapute. Ci vogliono fatti nuovi. E la crisi del mercato subprime non lo è. Era da anni che tanti investitori avevano messo in conto il crollo dell’enorme mucchio di prestiti facili e dissennati contratti nel mercato immobiliare americano.

Il terzo motivo è che il credit crunch di cui tanto si parla è per Fisher una contrazione del credito che, almeno nel settore corporate, fa solletico più che paura. Nel 2000 gli spread tra titoli del Tesoro e junk bond si allargarono all’improvviso di tre o quattro punti percentuali. Oggi si sono allargati di un punto per poi tornare a restringersi, e gran parte dell’aumentato differenziale è stato provocato dalla discesa dei rendimenti dei titoli del Tesoro più che da un’impennata di quelli dei junk bond: uno sviluppo tutt’altro che negativo. Infine c’è il pessimismo dei media, che per Fisher è sempre presente nelle correzioni di un bull market e mai quando un bull market cede finalmente il passo a un bear market. Insomma, finchè i pessimisti di oggi non diventeranno ottimisti c’è per Fisher un buon motivo per pensare che il rally delle Borse continuerà, con il suo epicentro nei mercati emergenti dell’Asia.

Delle cause della crisi di agosto ho già scritto nel post Derivati, armi di distruzione di massa? riservandomi di tornarne a parlare con l’aiuto di un grande esperto come Satyajit Das. Lo farò, ma per ora, per quanti masticano l’inglese, vorrei proporre un suo testo recente, un po’ lungo ma illuminante: “Credit crunch, the new diet snack for financial markets”. E aggiungere il link a un articolo del New York Times che fa riferimento a un paio di altri studi di autori importanti come Andrew Lo del MIT e Clifford Asness di AQR, un grande e prestigioso hedge fund pure scosso dalla crisi. Tra le analisi di questi autori ci sono molti punti in comune: il moltiplicarsi di hedge fund ha aumentato il rischio nei mercati, il fatto che molti perseguono strategie simili ha ridotto i ritorni, sollecitando l’impiego di una leva finanziaria sempre maggiore. In caso di improvvise difficoltà di qualche grosso player (come è accaduto ai primi di agosto tra gli hedge fund quantitativi) le liquidazioni forzate che ne derivano portano a un “impazzimento” caotico dei mercati più diversi, con conseguenze negative che ricadono a cascata su un numero via via crescente di investitori.

A proposito di hedge fund, un articolo del Financial Times riporta i risultati di uno studio di Hedge Fund Intelligence: nei primi sei mesi dell’anno gli asset amministrati da fondi hedge a livello globale sono aumentati del 19% raggiungendo i 2.500 miliardi di dollari. Se si tiene conto della leva finanziaria spesso impiegata da questi fondi, e della segretezza con cui operano, si capisce perché molti cominciano a preoccuparsi del fatto che sono dei misteriosi “black box” (scatole nere) a farla sempre più da padroni sui mercati finanziari.

Un articolo di Bloomberg mette in rilievo i caratteri travolgenti del rally in corso delle materie prime. Nel mese di settembre l’indice CRB ha guadagnato l’8,1%, sospinto dall’ascesa dei prezzi del grano, del petrolio e dell’oro. Si tratta del risultato migliore dal luglio del 1975. Il riferimento alla metà degli anni ’70, quando la prima crisi petrolifera, innescata dal conflitto tra arabi e israeliani, fece esplodere l’inflazione, fa pensare. Oggi la domanda di materie prime è sostenuta dall’impetuoso processo di industrializzazione della Cina, un fattore a cui durante l’estate si è aggiunto il sospetto che per contrastare la sempre più profonda crisi immobiliare negli Usa la Federal Reserve tornerà a inondare i mercati di liquidità. I rischi d’inflazione sono dunque in aumento. E in tempi d’inflazione, sono gli asset reali (come le materie prime) a offrire la protezione migliore.

Delle scomode opzioni che la Federal Reserve ha davanti a sè si occupa Bill Gross, il “re dei bond”, nella sua lettera mensile agli investitori. Il problema per la banca centrale americana è la situazione schizofrenica tra un settore corporate in buona salute e milioni di famiglie che rischiano di finire sul lastrico, affossate dai debiti e da un mercato della casa in caduta libera (vedi grafico sotto). Scrive Gross: “Se Bernanke fa finta di nulla e congela i tassi, rischia di esacerbare una crisi immobiliare in pieno sviluppo. D’altra parte, se decide di favorire le famiglie a scapito delle imprese, il rischio è di tornare ad accendere comportamenti speculativi nel mercato azionario, e di provocare una fuga dal dollaro.” Cosa farà la Fed? Cercherà probabilmente una via mediana ma efficace nel contrastare una crisi del mercato della casa destinata a restare per anni al centro delle sue preoccupazioni. Per Gross questo significa che nei prossimi 6-12 mesi i tassi a breve dovranno scendere a livelli non superiori all’1% reale, pari al 3,75% in termini nominali – molto più in basso, insomma, di quanto non sia al momento scontato dal consenso degli investitori.

Una sintesi efficace della performance dei mercati mondiali alla fine del terzo trimestre, espressa in termini di valuta locale, è pubblicata da Bespoke Investment Group. Svettano i guadagni di petrolio, oro e mercati emergenti; tra le Borse sono quelle dei cosiddetti BRIC (Brasile, Russia, India, Cina) a guidare la classifica.

Economia

Paul Kasriel di Northern Trust riassume in un recente articolo la sua valutazione dello stato dell’economia Usa. Kasriel parla di una “growth recession” (recessione con crescita), cioè di un’economia che cresce meno del suo potenziale e che vede dunque diminuire la capacità utilizzata e aumentare i disoccupati, con rischi elevati di una vera e propria recessione nell’immediato futuro. Il pericolo viene dal mercato della casa, il cui collasso sta inducendo le famiglie a mettere un freno ai consumi. Sono diversi gli indicatori che confermano come gli Usa siano ad appena un passo dalla recessione: dal LEI (Index of Leading Economic Indicators, da noi noto come superindice economico), al rapporto tra occupati e popolazione (che ha iniziato a calare, come è accaduto all’inizio di ogni recessione degli ultimi decenni), all’indicatore di Kasriel (“Kasriel Recession Warning Indicator” o KRWI, vedi grafico sotto), composto dal tasso di variazione annua della base monetaria in termini reali, e dalla media mobile a quattro trimestri dello spread tra tassi decennali e Fed Funds.

Nota Kasriel che, assieme, l’andamento reale della base monetaria e la curva dei rendimenti hanno sempre dato segnali affidabili di recessione negli ultimi 50 anni. Quest’anno hanno emesso un “segnale qualitativo” o debole, nel senso che sono scesi leggermente in territorio negativo per poi rimbalzare, seppur di poco. Ci troviamo, insomma in una situazione di grande incertezza e notevoli rischi, a cui la Fed, ad avviso di Kasriel, ha cominciato a rispondere con una manovra di riduzione dei tassi che con ogni probabilità continuerà in modo aggressivo nei mesi a venire.

A misurare i rischi di recessione c’ha provato anche un sondaggio di Rothstein Kass tra i manager di hedge fund americani. Hanno risposto in 239, e per il 61% del campione una recessione è “molto probabile” nel 2008. L’87%, messo evidentemente sul chi va là dagli scossoni dell’estate, ha anche previsto un aumento della volatilità nei mesi a venire. Ma, si sa, per gli hedge questo non è un problema.

Una stima ben diversa la fa invece il campione eterogeneo di investitori istituzionali che Merrill Lynch sonda ogni mese nella sua nota e molto seguita “Global Fund Manager Survey”. Riferisce David Rosenberg che, nel più recente sondaggio, solo il 7% vedeva rischi di recessione per il prossimo anno. E’ presumibile, dunque, che se una recessione dovesse davvero prendere piede, si abbatterebbe come una sorpresa di grande impatto sui mercati globali. E qual è la stima di Merrill Lynch? In base al loro modello, il rischio viene quantificato al 70%. E’, insomma, molto alto.

Un tassello del puzzle che ancora manca per arrivare a dire che una recessione negli Usa è inevitabile è sicuramente l’ISM manifatturiero, un sondaggio tra i responsabili degli acquisti che ha dimostrato nel tempo di predire correttamente, con un trimestre circa d’anticipo, l’evoluzione del Pil. Il rapporto di settembre è uscito due giorni fa, e come nota Northern Trust, ha evidenziato un indebolimento per il terzo mese di fila. Ma il dato di 52 resta per ora sopra la soglia di 50, che individua il punto di demarcazione tra espansione e contrazione dell’attività economica.

Un utile sommario dello stato del mercato della casa, l’origine dei problemi americani, lo offre Barry Ritholtz nel suo blog. Le tabelle alla fine del post, tratte dal New York Times, rendono con efficacia l’asprezza del tonfo. Non solo i prezzi delle case sono in caduta libera, ma se si dà credito ai contratti future, una stabilizzazione dei prezzi non è prevista prima del 2010. La crisi, insomma, è appena agli inizi.

Politica e media

La fiducia degli americani nell’amministrazione federale, stando all’ultimo sondaggio Gallup, è crollata ai livelli più bassi dai tempi dello scandalo Watergate, che costrinse l’allora presidente Nixon alle dimissioni. Manca appena un anno alle elezioni, ed è lecito pensare che George W. Bush farà di tutto per evitare una disfatta dei Repubblicani, e una fine così ingloriosa del suo secondo mandato. Chi pensa, e sono in tanti, che l’appuntamento ciclico con una recessione sarà almeno un po’ differito, fa affidamento sull’inesorabile logica del cosiddetto ciclo presidenziale. Il terzo e quarto anno di questo ciclo (nel nostro caso, il 2007 e il 2008) sono tipicamente i migliori per la Borsa per la semplice ragione che la Casa Bianca fa di tutto (compreso l’esercizio di ogni tollerabile pressione sulla Fed) per assicurare che i rubinetti della spesa e della liquidità siano ben aperti nell’imminenza della scadenza elettorale. E’ l’applicazione pratica del motto: “It’s the economy, stupid.” Scommettere su una recessione a breve sarebbe insomma un po’ come scommettere contro il ciclo presidenziale: in passato si è trattato, quasi sempre, di una puntata perdente.

MarketWatch, il portale di informazioni finanziarie che fa capo alla Dow Jones (e cioè, in definitiva, alla News Corporation di Murdoch), ha lanciato la versione beta di MarketWatch Community: un servizio gratuito che consente agli utenti di riorganizzare, condividere, commentare, etc. etc. i ricchi contenuti del sito. E’ un altro passo in quella rivoluzione dei media che ci sta trasformando tutti in “prosumer” (produttori/consumatori), e di cui ho scritto nel mio post Internet, i media e l’imprevedibile futuro. L’Italia, in questa rivoluzione, si trastulla nelle retrovie. E’ di oggi la notizia che la commissione europea agirà contro il nostro governo per i ripetuti ritardi nell’eliminare parti che contrastano con le norme sulla concorrenza contenute nella legge Gasparri (figlia prediletta del governo Berlusconi). Scrive Reuters: “Bruxelles ha messo nel mirino la legge Gasparri soprattutto nella parte che consente alle sole imprese già presenti nel mercato televisivo di comprare frequenze da altri operatori per avviare le trasmissioni digitali.” Tenacemente, e a tanti livelli, l’Italia appare impegnata a difendere un indifendibile passato, che le tecnologie e lo “spirito dei tempi” stanno affossando.

 

Il mercato delle idee: liquidità, hedge fund e la Fed

Gli articoli raccolti nel mercato delle idee prendono questa volta in esame le cause e le possibili conseguenze del crollo dei due hedge fund gestiti da Bear Stearns; l’irrigidimento degli standard creditizi negli Usa; l’evoluzione della congiuntura economica; la salute del mercato Usa del lavoro e le prossime mosse della Fed; la correlazione tra i mercati azionari e i nessi tra globalizzazione e inflazione.

Nouriel Roubini, nel suo blog, riflette sul crollo di due fondi hedge di Bear Stearns, travolti dall’aggravarsi della crisi del mercato immobiliare Usa. I fondi investivano in CDO, strumenti poco liquidi, poco trasparenti e, come ora si comincia a capire, molto rischiosi a dispetto di rating irrealisticamente elevati. Il continuo approfondirsi della recessione nel mercato della casa, il rialzo dei tassi dei mutui ipotecari, il processo di riesame del merito di credito dei CDO, che oramai è in corso, e il riverberarsi delle pesanti perdite dei due hedge fund di Bear Stearns sul resto dell’industria dei fondi hedge e sui broker primari che prestano loro liquidità costituiscono un cocktail molto pericoloso. Per Roubini i rischi di contagio sono evidenti, e paragonabili a quelli innescati dal crollo del fondo LTCM nel 1998.

Barry Ritholtz, nel suo blog The Big Picture, riporta molti e interessanti dettagli sui motivi che hanno causato il collasso dei due hedge fund di Bear Stearns, e sulle possibili conseguenze. Si scopre tra l’altro che i fondi operavano con una leva di 20:1. L’asta per gli asset messi ora in liquidazione rivelerà il loro vero valore di mercato. E, di conseguenza, il valore di asset simili detenuti da tanti altri investitori nell’oscuro mercato dei CDO. Per alcuni di questi potrebbero essere dolori.

La crisi del mercato Usa dei mutui subprime sta inducendo un complessivo irrigidimento degli standard applicati all’offerta di credito, con ripercussioni che vanno ben oltre il settore immobiliare. Le vendite di case sono in caduta verticale, ma quel che più preoccupa Paul Kasriel di Northern Trust è l’impatto sull’offerta complessiva di liquidità negli Usa . Il tasso di crescita del credito totale, corretto per l’inflazione, è sceso dal 9% dell’ottobre scorso al 4,6% di maggio.

Il Superindice Usa resta debole e potrebbe calare di nuovo a giugno, come segnala Asha Bangalore di Northern Trust. Si noti che, a parte il falso segnale del 1966/1967, il LEI (Leading Economic Indicator) ha sempre correttamente anticipato le recessioni dell’ultimo mezzo secolo.

Ottimo sommario, in un articolo di Wolfgang Munchau per Eurointelligence, sul problema dell’eccessiva liquidità, che ha finito per gonfiare le valutazioni di un po’ tutti i mercati finanziari. Qual è la causa? Le politiche monetarie in America ed Europa, o l’accumulazione di riserve in Asia, che è il risultato di politiche di cambio supercompetitive? Probabilmente la seconda, nel qual caso la stretta della Federal Reserve e i rialzi della BCE potrebbero risultare ininfluenti. C’è il rischio che gli squilibri continuino a montare, e che le bolle sui mercati finanziari si gonfino ancora. Alla fine i danni saranno maggiori, anche se per gli investitori resta molto problematico capire quanto vicina, o quanto lontana, possa essere questa resa dei conti.

Paul McCulley, managing director di PIMCO, riflette con la consueta brillantezza sull’andamento del ciclo in America e le prossime mosse della Fed. I dati sull’occupazione, argomenta McCulley, probabilmente sovrastimano lo stato di salute del mercato del lavoro, com’è tipico nelle fasi avanzate del ciclo. C’è il rischio che la Fed, interpretando alla lettera le risultanze di un indicatore che si muove comunque in ritardo rispetto al ciclo, finisca per sottovalutare le difficoltà dell’economia Usa, rendendo inevitabile, con la sua inazione, una recessione. La strategia di PIMCO resta centrata su attese di debolezza ciclica e tassi a breve in calo.

Il sentiment index di Investor’s Intelligence evidenzia livelli molto bassi di pessimismo (i più bassi da 3 anni) tra gli autori di newsletter d’investimento americane. Il differenziale tra la percentuale di bulls e bears, e cioè tra ottimisti e pessimisti, è pure molto elevato. E siccome l’indice funziona come un buon indicatore contrario, si tratta di un segnale che dovrebbe suggerire cautela.

Quanto correlati sono i mercati azionari tra di loro? In genere abbastanza, risponde il blog Ticker Sense di Birinyi Associates. I mercati che si muovono più all’unisono con quelli Usa sono i mercati latinoamericani e, a seguire, quelli europei. I meno correlati restano i mercati asiatici e quello australiano. Le correlazioni sono aumentate nell’ultimo anno: una brutta notizia per quanti cercano di ridurre il rischio con la diversificazione dei portafogli.

Eric Chaney di Morgan Stanley pubblica un’interessante analisi sui rapporti tra globalizzazione e inflazione. Il raddoppio della forza lavoro globale, quella cioè operante in contesti economici aperti al commercio internazionale, sta esercitando una poderosa pressione al ribasso sui salari nominali. E l’apertura delle frontiere nazionali al libero scambio migliora la produttività aggregata. Dai tempi della caduta del muro di Berlino, l’una e l’altra sono cause di un processo deflazionistico che per Chaney non ha ancora compiuto il suo corso. Ma i rischi d’inflazione sono in agguato, in primo luogo per l’aumentato pericolo di reazioni protezionistiche ai processi di globalizzazione.

 

Il mercato delle idee: curve, commodities e bolle

Tra gli articoli recenti che vado a esporre nel mercato delle idee ci sono le riflessioni di Barry Ritholtz sui dati americani sull’inflazione, un ammonimento di Mike Panzner tratto dall’andamento della curva dei rendimenti, le previsioni di PIMCO, che resta bullish sui mercati delle commodities, un’interessante ricerca di Michael Mauboussin sull’importanza del carattere per un investitore, le considerazioni di Northern Trust sui tratti sempre più speculativi del rally del mercato azionario cinese.

Le borse si sono entusiasmate per gli ultimi dati sull’inflazione Usa. Ma le statistiche sono ingannevoli, come ben argomenta Barry Ritholtz in The Big Picture.

La curva dei rendimenti Usa, dopo un protratto periodo di inversione, è tornata ad avere un’inclinazione positiva, in seguito al brusco rialzo dei tassi a lunga. Chi ha interpretato positivamente la novità, e sono i più, rischia di sbagliarsi di grosso, come mostra Mike Panzner su Bloggingstocks.

Il pessimismo sul dollaro va molto di moda. Eppure, forse anche per questo, il biglietto verde potrebbe essere a una svolta. Di nuovo Mike Panzner nel suo blog .

Bill Gross, “re dei bond” e fondatore di PIMCO, illustra le previsioni di medio-lungo periodo del suo gruppo: crescita globale sostenuta, tassi in ripresa, dollaro sempre debole, borse OK e rally di materie prime e valute emergenti.

Per BCA Research i mercati azionari restano attraenti rispetto agli asset concorrenti, anche dopo la recente ascesa dei rendimenti obbligazionari. Il consiglio è di continuare a comprare nelle fasi di debolezza (“buy the dips”).

L’ultimo paper di Michael Mauboussin è, come sempre, affascinante. Sono i tratti del carattere quelli che distinguono i grandi investitori, come d’altra parte sembra avere ben chiaro Warren Buffett nella ricerca di un successore alla guida del suo gruppo. Quali sono le caratteristiche che Buffett ritiene essenziali? L’abilità di riconoscere ed evitare i rischi gravi, la capacità di pensare in modo indipendente, la stabilità emotiva e il talento nel comprendere i comportamenti umani.

Ticker Sense ogni settimana tasta il polso di oltre 50 tra i più noti blogger finanziari, per conoscere le loro attese sui mercati azionari. Il sentiment resta in prevalenza negativo, una condizione che ha accompagnato tutto il rally dell’ultimo anno.

Crosscurrents di Alan Newman documenta il fervore speculativo che anima la Borsa americana. I volumi negoziati sono tornati a superare un multiplo di tre volte il Pil per la seconda volta nella storia (la prima, ovviamente, è stata nel 2000), l’holding period medio di un titolo azionario è sceso verso i 6 mesi, e la liquidità detenuta dai fondi è crollata ai livelli più bassi di sempre. Conclusione? Gli investitori sono quasi scomparsi e domina il trading di breve periodo in un mercato ipercomprato. Newman prevede una correzione almeno del 15% entro l’autunno.

Think BIG di Bespoke Investment Group osserva come il rally dei rendimenti obbligazionari americani, che alle scadenze decennali hanno superato di gran corsa la soglia del 5%, abbia colpito l’immaginazione dei media. Ne hanno parlato tutti con grande rilievo, anche i piccoli giornali di provincia, tra attese di continui rialzi. Quando il sentiment si fa così estremo – commenta il blog – è probabile che un massimo, per lo meno di breve periodo, sia stato raggiunto.

Northern Trust analizza la bolla del mercato azionario cinese, simile ormai al Nasdaq di fine anni ’90. Non solo il multiplo P/E ha toccato il livello irragionevole di 44 volte gli utili dello scorso anno, ma la volatilità è sempre più elevata, segno di un mercato molto speculativo. Solo negli ultimi sei mesi ci sono state 11 sedute in cui l’indice di Shanghai ha chiuso con variazioni superiori al 4%. Benché manchino dati precisi, c’è ampia evidenza del fatto che i piccoli investitori cinesi, che contano anche per l’80% delle transazioni nelle giornate più attive, ricorrono ampiamente al debito per “giocare” in borsa. Quando la bolla scoppierà – e non c’è dubbio che scoppierà – sarà difficile per le autorità evitare gravi ripercussioni sociali. E il colpo che verrà inferto ai consumi dell’emergente classe media cinese finirà per pesare sull’export di tutto il continente asiatico.

Sei ragioni per cui l’ascesa dei rendimenti obbligazionari è una minaccia per i mercati azionari: le illustra Barry Ritholtz su The Big Picture.

L’oro, negli ultimi mesi, ha subito una sensibile correzione. Ma per Prieur du Plessis c’è un lungo bull market ancora davanti a noi. Le analogie con il ciclo degli anni ’70, analizzate in un post sul blog Investment Postcards from Cape Town, sono suggestive.

 

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