Rendimenti azionari di lungo periodo
Crolli di Borsa come quello degli ultimi 18 mesi sono uno sgradito richiamo alla realtà. Ci ricordano quanto possano essere volatili le quotazioni azionarie.
Nel post Annus horribilis, qualche mese fa, riportavo una tabella con i rendimenti totali (comprensivi dunque dei dividendi) del mercato americano dal 1825 al 2008. Rispetto a un ritorno medio annuo del 10% circa, le variazioni da un anno all’altro sono state da capogiro: prossime a un -50% nel 1931, ma superiori a un +50% nel 1933 o nel 1954. E parliamo dell’intero mercato. Per i singoli titoli le fluttuazioni possono essere molto più ampie.
Le azioni, tra le varie classi di asset, offrono dunque i migliori rendimenti di lungo periodo perché sono rischiose. L’alto rendimento è l’altra faccia del rischio elevato e sarebbe irrealistico presumere che l’uno possa essere separato dall’altro.
Su come migliorare questo inestricabile rapporto tra rischio e rendimento gli investitori si sono a lungo interrogati. Un modo tra i più semplici e radicali è quello di ignorare le fluttuazioni di breve periodo e allungare l’orizzonte d’investimento.
Come fa notare Jeremy Siegel nel suo classico Stocks for the long run (tradotto in italiano col titolo di Rendimenti finanziari e strategie d’investimento), lo studio degli ultimi duecento anni di storia dei mercati finanziari americani (per i quali abbiamo dati di più lungo periodo) mostra come un investitore in azioni il cui periodo di detenzione non superi l’anno ha una possibilità abbastanza elevata di restare deluso: solo nel 60% circa dei casi, se si assume il passato come guida, riuscirà a spuntare rendimenti superiori a quelli delle obbligazioni o dei sicuri titoli a breve del Tesoro.
Nel rimanente 40% dei casi dovrà non solo fare i conti con le quotidiane, inquietanti oscillazioni dei prezzi azionari, ma accontentarsi a fine anno di un ritorno inferiore a quello che avrebbe potuto portare a casa con un tranquillo investimento nel reddito fisso.
Siccome si calcola che l’orizzonte temporale dell’operatore medio sia di un anno circa, l’osservazione appena fatta spiega in buona misura perché molti investitori continuino a guardare le azioni con sospetto e apprensione – un atteggiamento che in tempi come gli attuali deborda in virulenta avversione.
Che succede, però, quando si allunga il periodo di detenzione? La volatilità dei rendimenti diminuisce. Il motivo è abbastanza semplice. Nel breve periodo i mercati azionari sono dominati dai comportamenti speculativi e dalla instabile psicologia della massa degli investitori: imprevedibilità e volatilità sono al massimo. Più però lo sguardo si allarga al lungo periodo, più emerge un fattore guida di altra natura. Si tratta del valore fondamentale dei titoli azionari, dato dalla capacità di ogni azienda di generare utili e, in ultima istanza, dividendi in un arco di tempo assai lungo (almeno mezzo secolo per una tipica azienda ma molto di più per il mercato nel suo complesso).
Allungando l’orizzonte d’investimento, lo scenario in cui l’investitore si trova a operare cambia dunque drasticamente. I punti di riferimento diventano più saldi. Nell’arco di un decennio, la probabilità di ottenere con le azioni rendimenti superiori ai titoli a reddito fisso è stata storicamente dell’80%, ha superato il 90% per periodi ventennali ed è stata prossima al 100% per periodi trentennali. Non solo. Nella storia dei mercati americani, le azioni non hanno mai dato rendimenti reali negativi per periodi pari o superiori ai 17 anni. In quell’arco di tempo, cioè, un investitore sarebbe sempre riuscito a recuperare quanto meno il valore effettivo del capitale investito.
Ciò vuol dire che a fasi negative ne sono sempre seguite di positive e che anche dalle situazioni più drammatiche, come guerre mondiali e catastrofiche depressioni, i mercati azionari hanno saputo alla fine risollevarsi remunerando con prodigalità gli investitori pazienti.
Un’efficace e accurata rappresentazione grafica di questa tendenza della volatilità dei rendimenti a smorzarsi nel tempo, regredendo verso una confortante media di lungo periodo, è stata proposta di recente dal New York Times, che ha calcolato i ritorni decennali dell’indice S&P 500 dall’inizio del 1927 a oggi: 82 anni di storia.
Si tratta di un grafico che, in forme più grezze, ho già proposto. Il lavoro del New York Times è però più completo di altri e meritevole di attenzione giacché include i dividendi ed esclude l’inflazione. A parte il costo di transazioni e tasse, che dipendono dalle caratteristiche individuali di un investitore e in particolare da quanto è attivo nella compravendita di titoli, si tratta di uno studio che offre una rappresentazione precisa di quanto hanno reso le azioni americane nella loro storia.
La linea tratteggiata illustra il rendimento totale medio composto, al netto dell’inflazione: si tratta di un elevato 6,2% annuo, che nessun’altra delle principali classi di asset è stata storicamente in grado di avvicinare.
I rendimenti decennali, rappresentati nel grafico, hanno oscillato tra un massimo del 19,1% – raggiunto nel 1959 – e il nuovo minimo storico di -5,1% toccato il mese scorso. La volatilità, in un orizzonte decennale, non scompare anche se risulta molto più smorzata rispetto alle esorbitanti variazioni annue tra +60% e -50% di cui riferivo all’inizio. Ma soprattutto si nota, con grande evidenza, la tendenza dei rendimenti a oscillare e ogni volta regredire verso il livello medio indicato dalla linea tratteggiata.
Chi ha comperato azioni nel 1999, conservandole attraverso i due bear market del 2000-2002 e quello attuale, ha finito per ottenere rendimenti totali reali, in dieci anni, ancora peggiori di chi si lasciò ammaliare dalle azioni al picco delle bolla speculativa della seconda metà degli anni ’20 o alla fine del lungo bull market degli anni ’50 e ’60. In entrambi quei casi agli eccessi speculativi seguì un ciclo per lo meno decennale di profonda crisi (gli anni ’30 e gli anni ’70). La storia, a grandi linee, si sta ora ripetendo.
Comprare alla fine dei grandi bull market azionari, nei momenti di massima sopravvalutazione del mercato, ha richiesto in passato fino a 17 anni semplicemente per recuperare il valore dell’investimento iniziale: un affare pessimo ma meno catastrofico di quanto è capitato con i titoli a reddito fisso, per i quali – come ci ricorda sempre Jeremy Siegel – si sono avuti anche periodi trentennali di ritorni significativamente negativi, a causa dell’effetto devastante dell’inflazione.
Com’è invece andata a quegli investitori che, sfidando il sentire comune, hanno comprato azioni nel pieno di una crisi, quando il crollo delle Borse era già stato così marcato e protratto da far precipitare i rendimenti decennali, come oggi, in territorio negativo? Il grafico del New York Times ci consente di dare una rapida risposta: se sono stati pazienti, nell’arco di un decennio all’incirca sono poi sempre riusciti – anche nella peggiore delle ipotesi – a spuntare rendimenti totali non lontani dalla media, prossimi cioè a un 6% reale annuo. Non è poca cosa: si tratta infatti di un rendimento medio che la grande maggioranza degli investitori, e in particolare quell’ampia parte più ossessionata dalla ricerca del timing corretto, raramente riesce a conseguire – in tempi di crisi come in quelli di vacche grasse.
Concordo con il suo post,
ora i miei unici dubbi sono:
1- Conviene comprare azioni o etf? quest ultimi permettono anche lo short ed il leverage che le azioni non prevedono!
2- Ribadendo la mia atavica paura per i fallimenti societari, quali fondamentali societari analizzare per minimizzare i rischi?
3- sono cliente Unicredit e trovo l’ home banking estremamente limitato (mercati di negoziazione disponibili solo Milano ed Euro Tlx, altri a ben 20 € al mese), chi mi può disinteressatamente consigliare un nuovo intermediario?
Grazie al “padrone di casa” ed a tutti coloro che contribuiscono al ricco scambio di opinioni quotidiane.
Saluti
Mirko
ei Mirko passa da Unicredit a Fineco.
con circa 5 euro al mese puoi fare quasi tutto, e se hai asset ( contanti , pct , titoli ) superiori a 50mila euro paghi solo i bolli. il resto ( bancomat carta di credito , assegni, bonifici ) é gratis.
per la piattaforma evoluta per futures e opzioni calcola 20 euro al mese, ma di questi tempi è rischioso per il proprio capitale.
l’alternativa a Fineco e IWbank del gruppo UBI
articolo un poco controverso..
il grafico esclude l’inflazione, su qui non discuto, ognuno può prendere il parametro che vuole e farne una discussione; però poi si scrive questa frase “un affare pessimo” (l’investimento azionario) “ma meno catastrofico di quanto è capitato con i titoli a reddito fisso, per i quali – come ci ricorda sempre Jeremy Siegel – si sono avuti anche periodi trentennali di ritorni significativamente negativi, a causa dell’effetto devastante dell’inflazione”
senza però riportare nessun grafico 😦
Il ragionamento fatto per la borsa americana vale anche per le altre borse ? Giapponese per esempio?
Il bel grafico in questione, dott. Bertoncello, può esser letto in due modi, di fatto simmetrici:
1) il periodo attuale è il migliore in assoluto per entrare nell’azionario con ottica di lungo termine perchè mai il mercato ha offerto rendimenti reali così negativi
2) il periodo attuale è il peggiore in assoluto per entrare nell’azionario con ottica di lungo termine perchè mai il mercato ha offerto rendimenti reali così negativi
Nel secondo caso, infatti, la logica postula che ci stiamo imbattendo in terreni mai prima di ora esplorati, che potrebbero riservare sorprese negative ancora più grandi
E’ d’accordo con me?
Gent.mo Dott. Bertoncello
Leggo sempre con piacere e molto interesse il suo blog
parlando di rendimenti anche nel lungo periodo vorrei conoscere, se non ne ha già parlato, la sua opinione sulla costruzione di un portafoglio azionario con coperture short o eventualmente di altri tipi che lei conosce.
La ringrazio anticipatamente e complimenti per il suo lavoro.
… Quindi per operare non rimane che impostare regole di gestione… Perchè continuate a domandarvi dove andremo? Nessuno lo puo’ sapere!!Lo sò comincio ad essere monotono ma francamente non riesco a capire come l’attenzione sia tanto lontana dal nocciolo del problema. Forse ci (vi) piace la scommessa o il fascino dell’ignoto? Con qualche spicciolo per divertirsi (a perdere) va bene.. Ho suggerito di imparare dai grandi trader vincenti come Richard Dennis e niente.. l’argomento non interessa.
Per carità il mondo è bello perchè è vario, ma loro avendo capito, molto prima di noi, che i mercati non posso assolutamente essere previsti “semplicemente” assecondati. E hanno messo appunto regole sistematiche di gestione. Queste persone , volgarmente chiamati speculatori, erano (sono) persone dotate di grande cultura matematica e forza psicologica. Anche io l’ho capito sulla mia pelle cosa vuol dire investire senza regole. La strategia trend follower risponde alla logica dell’evidenza. E l’evidenza dice che siamo immersi in trend primario ribassista. Punto! Non centreremo mai il minimo per entrare nel mercato se non per un puro colpo di fortuna. Punto! Quindi tanto vale aspettare che si inverta la tendenza, magari entrando al di sopra del 30% dei minimi assoluti. Ma oggi noi non sappiamo quali saranno i minimi assoluti. Punto!
Saluti
Sarebbe interessante integrare il grafico qui sopra con quello della borsa giapponese, per capire soprattutto come sono andati in terra nipponica i rendimenti azionari reali negli ultimi 20 anni. Ha per caso la possibilità di trovarlo?
Segnalo questa interessante pubblicazione di credit suisse sui rendimenti reali di diversi mercati azionari nel lunghissimo periodo:
Fai clic per accedere a download_tracker.cfm
Dott. Bertoncello
qualche giorno addietro nel post “bear market secolari”fece rilevare come i 19 anni tra il 1901 e il 1920 e i 15 tra il 1966 e il 1981 non furono
sufficienti per avere un ritorno positivo . Siegel
con la sua monumentale raccolta di dati ha un bel dire che chiunque abbia un holding period superio-re a 15 anni dovrebbe indebitarsi per comprare azioni.Ma se dovesse ripetersi un bear market secolare iniziato nel 2000? Tutto ciò è certamen-
te riduttivo ma quanti hanno orizzonti temporali
di tale lunghezza?
Di nuovo complimenti per il suo blog.
younggotti grazie per il bel documento, che contiene indicazione anche sul rendimento reale in terra nippponica, negativo, come inevitabile, da 20 anni circa
Gentile Giovanni (3),
nell’articolo cito i dati che riporta Siegel nel suo libro. Il fatto che io non sia in grado di produrre un grafico non significa che siano controversi. Tutte le serie storiche dei dati che Siegel ha elaborato e utilizzato nel libro sono disponibili (a pagamento) sul suo sito. Si tratta di dati che vengono di frequente citati da altri studiosi e che sono considerati accurati.
Siegel, in Stocks for the long run, analizza a fondo questo punto che lei sembra avere trovato sconcertante, e cioè che nel lungo periodo le azioni hanno offerto rendimenti più stabili e sicuri delle obbligazioni.
I rendimenti reali del reddito fisso furono negativi, in America, per tutto il periodo che va dall’immediato dopoguerra ai primi anni ’80.
I motivi furono diversi. La Federal Reserve intervenne sul mercato dei bond subito dopo la guerra per mantenere bassi i tassi d’interesse; un’intera generazione – tra gli anni ’40 e ’50 – si tenne alla larga dalle azioni e puntò escusivamente sui bond dopo essere rimasta traumatizzata dalla Grande Depressione degli anni ’30; infine tra gli anni ’60 e ’70 gli investitori non furono in grado di prevedere gli effetti devastanti che la fine della parità aurea e l’accendersi di dinamiche inflative avrebbe avuto sul reddito fisso.
Il risultato fu che per oltre tre decenni una massa d’investitori confermò la sua fiducia nelle “sicure” obbligazioni, ottenendo in cambio delusioni cocenti: i rendimenti reali per i titoli a lungo termine furono negativi dell’1,2% annuo nel periodo 1946-1965, e negativi del 4,2% annuo nel periodo 1966-1982. Per i T-bill, e cioè i titoli a breve termine, i rendimenti furono negativi dello 0,8% annuo nel 1946-1965 e negativi dello 0,2% annuo nel 1966-1981.
Cordiali saluti,
Giuseppe B.
Gentile Gian (4),
il discorso che ho qui applicato agli Usa vale in larga misura per i mercati azionari dei principali paesi avanzati.
C’è uno studio di Elroy Dimson, Paul Marsh e Mike Staunton, aggiornato sino alla fine del 2006, che dimostra come i rendimenti reali dell’azionario americano non siano un’eccezione.
I tre studiosi hanno preso in esame i rendimenti azionari e obbligazionari di 16 paesi, dal 1900 al 2006. Relativamente all’azionario, i rendimenti Usa – a fine 2006 attorno al 6,5% annuo – sono di un punto percentuale circa superiori alla media, ma sono battuti da altri tre paesi: Svezia (il mercato migliore con un rendimento appena di poco inferiore all’8%), Australia e Sud Africa.
Rendimenti reali prossimi a quelli americani si registrano in Canada, Gran Bretagna, Olanda e Danimarca. Il rendimento reale del mercato azionario giapponese, dal 1900 a fine 2006, risulta del 4,5% circa.
I due mercati di gran lunga peggiori, tra i 16 analizzati, sono Belgio e Italia, con un rendimento reale medio annuo appena del 2,7%.
Cordiali saluti,
Giuseppe B.
Vedo ora che lo studio di Credit Suisse, allegato da younggotti (9), che ringrazio, è la stessa analisi di Dimson, Marsh e Staunton, aggiornata a fine 2008, che ho appena citato nel mio commento precedente.
I dati cumulativi, nella sostanza, cambiano di poco. Si conferma che gli Usa non sono un’eccezione. E che le grandi crisi fanno seguito ai grandi eccessi.
A questo proposito, per rispondere a Fabris (5), direi che il record negativo appena toccato nei rendimenti decennali dell’azionario americano può essere semplicemente interpretato come una reazione agli eccessi di sopravvalutazione raggiunti nel 2000.
Cosa questo comporti per il futuro non è facile dire. Gli anni ’30 e gli anni ’70 – i due decenni “perduti” per l’azionario americano nel corso degli 82 anni coperti dal grafico del New York Times – ci presentano due modelli di crisi molto diversi. Nel primo caso ci fu depressione e deflazione, nel secondo caso buona parte del danno ai rendimenti azionari fu alla fine inferto dall’inflazione.
Giuseppe B.
Mi sembra che per questi ritorni medi del 10% si prenda come riferimento l’andamento di indici generali quali lo S&P500 e il Dow Jones (sommandovi i relativi dividendi).
Il dubbio che mi prende è il seguente:
cosa accade invece ai titoli appartenenti al settore che sta al centro della crisi?
Anche loro seguiranno lo stesso andamento con un ritorno medio annuale del 10%?
Si riprenderanno sia in valore sia in utili dopo la crisi?
Si deve poi tener presente che gli indici non incorporano sempre le stesse società. Alcune entrano altre escono.
Son soddisfatto del precedente post del Dott. Bertoncello.
Penso infatti che oltre ai post “storici” come questo, occorrano anche quelli che analizzino la situazione attuale con dati più “immanenti”.
Concordo con l’idea espressa da Buffett quando gli domandano sulla validità di un’analisi del passato di un’azienda. Egli semplicemente risponde: “beh, meglio di niente”.
Il dubbio che mi torna alla mente però è lo stesso che ha espresso Lei stesso, con l’esempio del tacchino induttore, ops… tacchino induttivista 😀 ( http://investitoreaccorto.investireoggi.it/classifiche-dei-fondi-come-evitare-le-trappole.html ).
Penso infatti che per trarre regole da dati si debba fare particolare attenzione al metodo scientifico. L’attività economica mondiale credo sia troppo vasta per poter fare “esperimenti”. Pure i dati raccolti in 400 anni di borsa non si può dire che abbiano un sottostante comune, ovvero possibilità di ripetere l’esperimento alle medesime condizioni n volte. Quindi in via estrema potrebbero essere considerati come tanti esperimenti con 1 dato ognuno e non un esperimento con tanti dati da confrontare. Anche se le crisi fossero una 40ina, sarebbero, suppongo, una quantità poco significativa per trarre regole.
Un piccolo esempio. Lei, ancora quando tanti altri erano scettici su questa crisi, aveva applicato la durata media delle precedenti crisi per capire quando ci si sarebbe potuti attendere la fine. Beh, se non ricordo male i calcoli porterebbero a questo mese… Nel caso non terminasse entro questo mese, significherebbe che questa crisi ha allungato la vita media, mostrando che non era una regola immutabile di natura. Quindi, in quel caso, ci si potrebbe chiedere che potere predittivo abbiano certi dati.
Probabilmente un buon manuale di macroeconomia mi risolverebbe il problema: dato che si parla di “scienze” economiche, vorrà pur dire che son riusciti ad usare il metodo scientifico in qualche modo.
Penso, per ora, che i dati storici siano utili ma non si possa fare a meno di quelli più attuali.
Ps: sto imparando molto con il suo blog, ormai è un appuntamento fisso tanto che i giornali di settore li metto in secondo piano.
Un saluto,
Vinello
Gentile Vinello,
dubito davvero che un buon manuale di macroeconomia le risolverebbe i suoi dubbi. Studiarlo, naturalmente, “è meglio di niente”, per usare la frase di Buffett che lei cita. Così come “meglio di niente” è ricorrere alla storia per cercare di cogliere delle grandi tendenze che ci possano aiutare a dare un senso al presente.
Ma la puntuale prevedibilità di una vicenda sociale, com’è la vita economica o come sono i mercati finanziari, non è un obiettivo perseguibile.
Le propongo di pensare alla questione in questi termini. L’evoluzione dell’economia e dei mercati finanziari dipende da un’enorme massa di scelte individuali. Sulla Terra siamo ormai poco meno di 7 miliardi di esseri umani. Ognuno di noi è cosciente e si relaziona alla realtà circostante attraverso gli scambi che avvengono in ogni istante tra circa 100 miliardi di neuroni, ognuno dei quali è collegato agli altri da circa 10 mila contatti sinaptici. Vale a dire che in ogni momento ognuno di noi è e si comporta in base alle interazioni che hanno luogo tra un milione di miliardi di contatti sinaptici.
Non è tutto. Questi contatti sinaptici si modificano continuamente. Lei, ad esempio, scrive – e mi fa davvero piacere – di aver appreso molto attraverso questo blog. Lo stesso vale per me, che apprendo scrivendolo e relazionandomi con i lettori come lei. Il risultato – per stare al tema – è che sia i suoi che i miei nessi sinaptici sono cambiati, almeno un po’, interagendo con il blog.
Le pare che una realtà del genere – ed è la nostra realtà umana – sia prevedibile? Un milione di miliardi di mutevoli contatti sinaptici, moltiplicati per quasi sette miliardi di esseri umani, quante possibilità ci danno? Su quanti miliardi di miliardi di miliardi di esiti sorprendenti possiamo far conto?
D’altra parte, se non siamo in grado di prevedere le vicende umane, non ci resta forse che alzare bandiera bianca e concludere che siamo in ogni caso destinati alla più crassa ignoranza? Non penso proprio.
Per stare all’economia, è evidente che una migliore, seppur imperfetta, conoscenza – sviluppata attraverso modelli della realtà estremamente semplificati eppure utili – ci ha consentito nel corso dei decenni di migliorare la nostra capacità di gestire la vita economica. Questo è un tempo di fallimenti. Ma non ci deve portare a disconoscere i progressi di cui l’umanità è stata capace.
Quanto ai mercati finanziari, è altrettanto evidente che ci sono approcci – filosofie d’investimento – che sono più efficaci di altri nel conseguire a lungo andare risultati migliori.
Se non possiamo ambire alla perfetta intelligibilità, neppure siamo dunque alla deriva in un caos indecifrabile. Siamo invece immersi in una vasta zona grigia, tra quei due estremi, impegnati in lenti, pazienti, faticosi passi avanti. Per me il bello della vicenda umana è anche questo.
Cordiali saluti,
Giuseppe B.
Salve Dott. Bertoncello e grazie per il Suo Blog.
Volevo chiederLe come si concilia quanto dice Lei a proposito del periodo di detenzione delle azioni (“un investitore in azioni il cui periodo di detenzione non superi l’anno ha una possibilità abbastanza elevata di restare deluso”) con la strategia di Greenblatt (la Formula Vincente), la quale prevede che il periodo di detenzione di un titolo azionario NON vada, invece, al di là dell’anno.
La ringrazio.
Marco
Gentile Marco,
la ringrazio perchè mi consente di precisare un aspetto importante. Il periodo di detenzione di cui parlo nel mio articolo si riferisce a un portafoglio azionario e non a un singolo titolo. Nel caso di Greenblatt il periodo di detenzione è dunque virtualmente illimitato. C’è rotazione a livello di singoli titoli, ma l’esposizione al mercato azionario resta invariata nel tempo. Non c’è alcun tentativo di prevedere l’andamento del ciclo e non ci sono scommesse tattiche, che vanno a modificare l’esposizione complessiva nei confronti del mercato – che è invece ciò in cui è frequentemente impegnata la gran parte degli investitori.
Cordiali saluti,
Giuseppe B.
articolo interessante, anche se credo che il mercato è cambiato radicalmente. in questo periodo storico un investimento inteso come lungo termine non deve assolutamente superare i due anni di esposizione su un titolo.il motivo è che il mercato è cambiato ,ci sono forze che un tempo non esistevano (short per esempio), questo ha fatto cambiare radicalmente l.orizzonte temporale. guardate l.indice mibtel siamo tornati indietro di 15 anni……
Per Marco (19)
Lo short esiste da secoli (si praticava già ai tempi di Napoleone). E’ sempre stata data, con sporadiche interruzioni, la facoltà agli operatori di borsa di vendere allo scoperto le azioni per ricomprarle più avanti.
Si può discutere sulla “moralità” degli short a lungo, ma si tratta di un meccanismo presente da ben prima di questa crisi, per cui è difficile collegarlo alla situazione attuale.
è vero lo short esiste da secoli, però non era delle dimensioni attuali. comunque il mio discorso riguarda l.approccio completamente cambiato dell. investimento azionario.nel lungo termine siamo tutti morti…….
non è più vero che l.investimento azionario nel lungo termine premia.purtroppo le quotazioni viste due anni fà non si vedranno più, ci sono titoli che dovranno risalire del 1500-2000%.
Grazie signor Bertoncello per il suo blog che ritengo molto utile.In base alle serie storiche del SP500 risulta che comprando ai massimi nel peggiore dei casi si riesce a fare pari con l’inflazione dopo 17 anni.Non pensa che venendo da 10 anni negativi con ritorno medio a -5,1% annuo se si aspettassero 7 anni per arrivare ai valori del gennaio 1999 chi acquista ai prezzi di oggi potrebbe attendersi un ritorno medio del 14% nei prossimi 7 anni fino al gennaio 2016? Grazie.
opportunita’mercato azionario
Qualcosa mi sfugge; probabilmente la finanza non è il mio forte.
Ma non riesco esattamente a capire quanto tempo servirà ad un “cassettista” o, per meglio dire “investitore di lungo periodo” per rivedere il denaro investito, e quali performance saranno necessarie in termini percentuali.
Questo per andare a pareggio, senza tener conto dell’erosione in termini reali.