Filosofie d’investimento
Su cosa s’intenda per value investing, e quale sia la sua bontà teorica e pratica avrò modo di scrivere a più riprese, in questo blog, citando spesso un testo fondamentale come Value investing, from Graham to Buffett and beyond di Bruce Greenwald, Judd Kahn, Paul Sonkin e Michael van Biema. Per ora, da questo libro, vorrei trarre spunto per riassumere quali siano le grandi filosofie d’investimento e in cosa consista l’unicità del value investing.
Ho già scritto che la chiarezza nell’approccio di fondo ai mercati è per l’investitore il primo e imprescindibile passo. “Se non sai chi sei, il mercato è un luogo costoso dove scoprirlo,” è l’intramontabile massima scolpita da Adam Smith (uno pseudonimo) nel classico The Money Game . E’ meglio insomma ridurre al minimo le sperimentazioni un po’ naive (compreso l’affidamento cieco a chi ha consigli interessati da dispensare), e riflettere per tempo.
Investimento passivo
Dell’investimento “passivo”, che mira a replicare il mercato, ho già accennato. E’ la soluzione più semplice ed efficace per la gran parte dei piccoli investitori. Si fonda su solide premesse, sia teoriche che empiriche, quest’ultime riassumibili in due inoppugnabili osservazioni: a) fare meglio del mercato è difficile per chiunque; b) la stragrande maggioranza dei piccoli investitori, muovendosi confusamente da un prodotto all’altro, spesso col solo intento di inseguire le mode, finisce per fare molto peggio del mercato.
Se farai di meno avrai di più è dunque quanto promette l’investimento “passivo.” Quel “di meno”, però, deve essere ben fatto. Si tratta in sostanza di tre passi: a) asset allocation, dove l’investitore deve proporsi di diversificare correttamente il portafoglio, definendo in primo luogo il mix di azioni e obbligazioni sulla base della propria propensione al rischio; b) attenzione ai costi, dove alla scelta del broker efficiente ed economico bisogna far seguire anche quella dei prodotti più adatti (e nella gran parte dei casi gli ETF si riveleranno superiori ai fondi comuni); c) bilanciamento, sulla base di una precisa definizione della quota da riservare a ogni asset e dell’impegno tassativo a ristabilire il mix di partenza a intervalli regolari, ad esempio una volta all’anno (vendendo dunque gli asset che hanno performato meglio e acquistando quelli che hanno performato peggio).
Analisi tecnica e momentum investing
Analisi tecnica e momentum investing sono un altro diffuso approccio agli investimenti, basato sulla pratica osservazione che i mercati tracciano dei trend (nonchè sulla sempre più ampia, quasi illimitata disponibilità di dati, grafici, software operativi in questa nostra epoca digitale). Si tratta di una filosofia che ignora i fondamentali economici o una qualsiasi nozione di “valore” e si concentra sull’andamento dei prezzi e dei volumi. E’ adatta a chi fa trading o comunque opera sulla base di orizzonti temporali relativamente brevi, molto meno a chi pensa in termini di cicli “lunghi”.
Per l’investitore comune, analisi tecnica e momentum investing presentano, a mio avviso, diverse controindicazioni. Richiedono un impegno assiduo. Comportano costi elevati (software di analisi tecnica, costi di intermediazione). E mettono il piccolo investitore in diretta competizione con stuoli di trader professionali, meglio attrezzati, meglio informati, e spesso molto dotati. Insomma, è come andare a pesca in un mare popolato di squali: si va per cacciare e si finisce per essere cacciati.
Analisi fondamentale: Bottom up e top down
Nel campo dell’analisi fondamentale, sono tre le grandi filosofie: due sono di tipo bottom up, o microfondamentaliste, perché si concentrano sull’analisi dei fondamentali delle società singolarmente considerate; la terza è di tipo top down o macrofondamentalista, perché cerca di individuare opportunità d’investimento attraverso l’analisi dell’economia nel suo complesso. L’approccio top down è affascinante e intellettualmente stimolante. E’ il campo d’azione preferito dei guru di Wall Street, degli strategist delle grandi banche d’investimento. Ma ha un’evidente controindicazione, per chiunque, e soprattutto per il piccolo investitore: la sua infinita complessità.
Prevedere dove andranno tassi, prezzi, valute, produzione, consumi, investimenti, politiche fiscali e commercio internazionale, e tutta una sterminata serie di altre variabili che a livello globale si condizionano vicendevolmente in processi di feedback senza fine è come minimo un rompicapo terribile. E infatti i risultati anche dei modelli più sofisticati restano mediocri. Si può cercare di fare meglio della media, ovvero del consenso, ed è in questo che, alla fin fine, si cimentano gli analisti e investitori top down. Il piccolo investitore potrebbe proporsi di individuare, e seguire, alcuni di questi analisti con capacità superiori alla media. Ma non si deve illudere. Le probabilità di errore restano significative. Ed è per questo che a me pare saggio ridimensionare gli obiettivi dell’analisi top down. Tra tutti gli eventi del ciclo economico, quello di gran lunga più importante per i mercati è il materializzarsi di una recessione. Ed è su questa previsione, generalmente fallita dai più, che “l’investitore accorto” farebbe bene a concentrarsi.
Restano, per concludere questa generica e introduttiva carrellata, le due filosofie microfondamentaliste: il value investing e l’analisi fondamentale basata sull’attualizzazione dei flussi di cassa (discounted cash flow, DCF), ossia quel metodo finanziario insegnato nelle business school di tutto il mondo e applicato poi dalla stragrande maggioranza degli analisti delle grandi banche d’investimento.
Metodo DCF
In cosa differiscono le due filosofie microfondamentaliste? Partiamo dal metodo di valutazione basato sul DCF, per dire che non a caso è il preferito dalle business school e dagli analisti che lì si formano: è, infatti, teoricamente ineccepibile. Come osservano Mario Massari e Laura Zanetti nel loro Valutazione Finanziaria, il metodo finanziario è figlio diretto delle scoperte del grande economista Irving Fisher, il quale già negli anni Venti mise a punto i principi fondamentali per la valutazione di ogni asset (casa, azione, obbligazione, etc.). Tale valore dipende: a) dai flussi monetari che l’asset è in grado di generare e b) dalla distribuzione nel tempo dei flussi stessi. Il processo di valutazione mira quindi a determinare i flussi di cassa riferibili all’asset oggetto dell’analisi, e a scontarli a un tasso d’interesse che rappresenti adeguatamente il valore finanziario del tempo.
Quest’ultimo punto può essere così semplificato: è facilmente intuibile che un canone d’affitto o un dividendo o una cedola incassabili tra 10 anni non hanno lo stesso valore di un canone, dividendo o cedola, di pari importo, incassati oggi. E i motivi sono due: il flusso di cassa di oggi può essere investito a un tasso privo di rischio e generare ritorni per i prossimi 10 anni; i flussi attesi tra 10 anni potrebbero non materializzarsi perché gli asset da cui sono generati sono esposti, in misura variabile, a rischi. Un passaggio essenziale del metodo di valutazione DCF è allora la stima di un tasso che incorpori il giusto premio per il rischio (spread) dell’asset in questione.
Riassumendo e applicando al caso specifico di un titolo azionario, l’analisi basata sul DCF si snoda attraverso tre momenti decisivi ai fini di una congrua valutazione: a) una stima e proiezione analitica dei flussi monetari attesi nell’arco di 7-10 anni; b) una stima del terminal value (valore terminale), ipotizzando che oltre i 7-10 anni, per tutta la durata residua dell’asset in questione, i flussi crescano a un tasso costante, tipicamente allineato a quello del Pil; c) una stima del risk premium da sommare al tasso risk-free per arrivare al tasso a cui attualizzare i flussi attesi.
Per tornare al libro di Greenwald e altri, che citavo in apertura, quali sono i problemi di questo approccio? Quello che colpisce è la “evidente incoerenza tra la precisione del metodo di calcolo e le enormi incertezze delle variabili su cui il modello poggia.” Calcolare tassi di crescita a 10 anni, e poi un tasso di crescita perpetuo dal decimo anno in poi “è un esercizio eroico, se non addirittura folle.” Si tratta di stime “intrinsecamente inaffidabili.”
Concordo, soprattutto dopo aver osservato da vicino, per anni, la complessiva inaffidabilità delle stime degli utili e dei target di prezzo prodotti da stuoli di analisti, per quanto brillanti. Un’idea dei problemi pratici cui l’investitore si espone affidandosi alla teorica brillantezza del metodo basato sul DCF ce la dà sempre Greenwald quando nota come variazioni anche solo dell’1% nella stima del costo del capitale (utilizzabile come tasso di sconto) o del tasso di crescita perpetuo producano oscillazioni nel terminal value da una a tre volte. E il terminal value è la parte preponderante del valore attuale. Come a dire che, per esempio, di un titolo Eni che oggi quota a 25 euro potrebbe essere altrettanto facile arrivare a stimare, con il DCF, un fair value di 15 euro o di 45 euro.
Value investing
In cosa si differenzia il value investing, e quali ne sono i vantaggi pratici? Si tratta di una filosofia d’investimento che Graham e Dodd, valenti teorici ma al tempo stesso investitori di successo, si sforzarono di fondare su premesse realistiche e affidabili, partendo non da aleatorie stime di crescita ma da un dato più facilmente conoscibile: il valore netto delle attività, desumibile da un’accurata analisi dello stato patrimoniale.
Il secondo passo si sforza di determinare il valore della capacità di produrre utili (earnings power value, EPV), non sulla base di inaffidabili proiezioni nel futuro, ma prendendo le mosse dagli utili correnti, rettificati per tener conto di eventuali operazioni straordinarie, e “normalizzati” in funzione dello stato del ciclo (è essenziale cioè considerare se il settore in cui opera la società da analizzare, o l’economia nel suo complesso, siano nel pieno di una recessione, in prossimità del picco ciclico o in una situazione intermedia).
Solo nel terzo e ultimo passo la crescita viene presa in considerazione, e con quel giustificato scetticismo che nasce dalla consapevolezza che la crescita crea valore per l’investitore solo quando la redditività degli investimenti è superiore al costo del capitale. E questo è possibile se l’impresa in questione gode di vantaggi competitivi o è protetta da barriere all’ingresso di altri concorrenti nei mercati in cui opera. Le valutazioni sulla crescita, nell’approccio tipico del value investing, sono dunque strategiche, riguardano il posizionamento competitivo dell’impresa.
Valore dell’attivo, valore della capacità di generare utili, e valore della crescita sono le tre autonome stime che vengono confrontate e integrate nel value investing, con una costante attenzione a fare affidamento sugli elementi meno aleatori del difficile processo di valutazione. Come osserva Greenwald, il principio cui gli investitori attenti al valore, nella tradizione di Graham e Dodd, si sono sempre attenuti con indiscutibile successo è, dunque, “usa la conoscenza per ridurre l’incertezza.”
grazie infinite per la cultura finanziaria che ci trasmetti.Dino Pangrazzi
Dino,grazie a te del tuo messaggio. Il blog serve a me per sedimentare e chiarificare – anche grazie ai commenti dei lettori – idee che altrimenti rischiano di restare fumose. Spero che possa essere utile anche ad altri.Continua a leggermi e non esitare a farti vivo con osservazioni, domande o critiche: sono ben accette.Giuseppe Bertoncello
Salve Sig. Bertoncello
Sono uno studente di 19 anni di economia e ho letto gia molti dei suoi interessanti articoli.
Vorrei procurarmi una vasta cultura nel campo del Value Investing perchè mi interessa sia per investire in un breve futuro i miei risparmi sia perchè mi piacerebbe un giorno lavorare nel mondo dei mercati finanziari (magari come gestore di un fondo comune o hedge fund,ma questo è più un sogno).
Per ora ho letto solo ‘i segreti di warren buffett’ e ‘il piccolo libro che batte il mercato azionario’
vorrei leggere anche “la bibbia” di graham ma la mia conoscenza dell inglese a livello scolastico si pone come una barriera.
Lei ha qualche consiglio su come ampliare la mia ancora piccola cultura sul value investing?
Saluti
Daniele Di Gregorio
Sono 10 anni che lavoro nel campo della promozione finanziaria ed ho fatto molti corsi e seminari sull’argomento investimenti.
Ho letto molti libri da Buffet a Kiyosaki.
Mi sono appassionato alla filosofia Value Investing leggendo e vedendo i risultati di Warren Buffet e soprattutto come investitore avendo provato tantissimi altri prodotti e strategie dalle opzioni, alle azioni…
Penso che la filosofia con meno urgenze sia la Value investing.
Ho bisogno di approfondire la mia formazione e soprattutto voglio imparare a leggere correttamente i bilanci delle aziende per capire il Fair Value.
Da diverso tempo seguo il sito internet Gurufocus con grande interesse e ho cominciato a conoscere alcune aziende sulle quali Buffet a investito.
Da dove posso partire ?
Grazie e complimenti per il Blog.
Oscar
Complimenti per il blog, mi sono appassionato al mondo della finanza tramite l’approcio value di Graham e Buffet e mi chiedo se esiste un corso accademico, un master postlaurea (anche on line) che esponga l’argomento in modo strutturato e possibilmente (se non chiedo troppo)… in italiano? Grazie mille per l’eventuale risposta e ancora complimenti; questo blog è uno dei pochissimi a fare una corretta informazione finanziaria.