Alitalia, ah! l’Italia…
Una delle storie di questa estate che più ho trovato irritanti è stata la vicenda Alitalia. Non ne posso più di politici, sindacalisti e tromboni vari che mi spiegano come e perché Alitalia sia un “patrimonio” del paese. Tutti a invocare “soluzioni”, “salvataggi”, iniziative per salvaguardare un simile capitale di “competenze”, a volte con toni quasi apocalittici come quelli di un Walter Veltroni, il quale, ahimé, si è spinto persino a dire che “la scomparsa di Alitalia sarebbe un colpo molto serio al ruolo dell’Italia e al suo peso nel mondo” (sic). Ora, la mia ferma convinzione è che Alitalia sia anche stata un “patrimonio” per i suoi dipendenti e per tanti politici e sindacalisti che ai suoi destini hanno legato il loro, ma che per la generalità dei cittadini-contribuenti-consumatori sia stata negli anni, pervicacemente, niente più che un insidioso parassita.
Ha offerto servizi inadeguati a costi elevati, divorando quasi cinque miliardi di euro di risorse pubbliche (cioè denaro sottratto forzosamente alle tasche di ciascuno di noi), senza mai dare cenni di capacità o volontà di emendarsi.
Per non fermarmi alle vaghe e un po’ trite denunce, racconterò una cronaca personale dell’estate appena trascorsa: è solo un episodio, ma indicativo.
Un passeggero sfortunato
Giovedì 26 luglio mi presento all’aeroporto di Linate diretto a Catania. Devo raggiungere la famiglia in vacanza in Sicilia.
Sono un po’ in ritardo per un motivo curioso. L’autobus che mi portava all’aeroporto è rimasto fermo per una ventina di minuti perché, a seguito di un raro utilizzo, la pedana per gli handicappati di cui è dotato si è bloccata all’esterno del mezzo, rifiutandosi di rientrare nel suo vano. Alla fine, dopo un po’ di calci, botte e improperi da parte dell’autista, siamo riusciti a ripartire.
Mi presento dunque al check-in 35 minuti prima del decollo, col senso di sollievo di chi pensa di avercela fatta nonostante la mala sorte. L’addetta di Alitalia procede tranquilla con la pratica di rito e al momento della consegna della carta di viaggio mi dice: “Lei è un passeggero sfortunato.”
Ohibò, che è successo? A causa dell’overbooking, il volo è già stato chiuso. Sono finito in lista d’attesa: sorpresa sgradevole, ma comprensibile in un periodo di traffico intenso. Avrò comunque diritto a un rimborso.
“Prenda il suo bagaglio, la carta di viaggio e vada allo sportello 104, ci sarà qualcuno che le trova il primo volo disponibile.” Vado allo sportello, ma non c’è nessuno. Aspetto un po’ e poi torno al check-in a chiedere conferme, a questo punto un po’ innervosito. “Vada, vada al 104”.
L’uomo e la macchina
Dopo un po’ si presenta un giovane impiegato di Alitalia. Mi chiede la carta di viaggio. E’ sorridente e rassicurante. Comincia ad armeggiare al computer. Passano i minuti e il tramestio alla tastiera continua, senza risultati.
Intuisco che non conosce la procedura per consultare i posti disponibili per Catania o per trasferirmi dal mio a un altro volo. “Chiederà aiuto,” penso tra me e me. Ma il giovane si ostina solitario al suo computer, picchia sulla tastiera e mi sorride gentile.
Passano lunghi minuti. Arrivano altre persone allo sportello. Le richieste si accavallano. La situazione si fa caotica, tutti chiedono ma nulla succede. Si presenta trafelata quella che immagino essere la responsabile del servizio.
Il mio giovane è ancora lì che maltratta il computer senza esito. Chiede alla responsabile, ma la responsabile è indaffarata con una coppia che ha esigenze più complicate delle mie e comunque non sa. Alla fine si presenta casualmente allo sportello un’altra impiegata Alitalia, il giovane chiede, la collega risponde che il comando da digitare è senza la barra. “Ma cosa fai?”, gli dice.
Fuori dal tempo
Abbiamo perso un quarto d’ora per una barra e per l’ostinazione a non chiedere aiuto. Sono decisamente irritato ma mi sforzo di mostrarmi gentile. Il giovane davanti a me lo è e ora finalmente si procede. “Dunque, vediamo le disponibilità di posti…” Il volto resta congelato in un’espressione interrogativa.
Comincio a temere il peggio. Il giovane e la responsabile parlottano un po’. La responsabile si china a dare un’occhiata allo schermo. Scuote la testa. Si allontana e poi torna con un foglietto in mano. Sta lì davanti a me, in silenzio, e scruta il pezzo di carta. Borbotta che qualcuno le aveva detto che delle disponibilità per Catania c’erano, ma ora non le trova. Si attacca al telefono.
Passano lunghi minuti e io dentro di me comincio a schiumare rabbia. Ho l’impressione di avere a che fare con degli incompetenti, con un servizio nel caos. E pensare che avevo deciso di volare di giovedì, nel primo pomeriggio, per evitare i giorni e le ore più trafficate. E avevo scelto Alitalia per tenermi alla larga da operatori low cost di cui non mi fidavo.
Le mie amare considerazioni sono interrotte da un’improvvisa e divertita esclamazione della responsabile. “Ma questi sono i voli di venerdì 27, di domani, non di oggi!”
Ma guarda un po’. Sono stato lì ad aspettare impotente, e questi che facevano? Si trastullavano con la lista delle disponibilità del giorno sbagliato. Pazienza! L’importante è uscire da questa bolla di caos in cui sono finito. Il giovane ora marcia spedito al suo computer. In un attimo sono pronte le mie nuove carte di viaggio: sono due, perché sono costretto a volare via Roma, ma la partenza è tra meno di un’ora, arriverò con tre ore e mezza di ritardo rispetto all’orario originario – non è un disastro.
In più, come mi ripete la responsabile, ho diritto a un rimborso di 250 euro, che mi verrà liquidato subito alla biglietteria alle mie spalle. E’ il doppio di quanto mi è costato il biglietto. Per quel po’ di ritardo, è un vero affare. Quasi quasi, penso con un po’ di ritrovato buonumore, sfruttando l’overbooking e le liste d’attesa uno potrebbe mettere in piedi una redditizia attività.
La coda viscosa e il modulo infinito
Il mio bagaglio è sui nastri, io saluto e mi affretto verso la biglietteria. Ci sono tre sportelli in funzione e tre persone in attesa di essere servite, davanti a me. “In un attimo sistemo ‘sta faccenda e ho anche il tempo di mangiare un boccone prima di imbarcarmi,” penso tra me e me. E’ un ottimismo di breve durata.
La fila è breve ma viscosa. Anzi, proprio non si muove. Passano 5, 10, 15 minuti. “Ma che stanno facendo?” Non riesco a capire cosa possa trattenere una persona in biglietteria per un quarto d’ora e passa. Alla fine, quando sono ormai lì che guardo in continuazione e con apprensione l’orologio, arriva il mio turno. Manca meno di mezz’ora alla partenza del volo.
Lo dico subito all’impiegato Alitalia, brizzolato, distinto, cinquantenne, che sta davanti a me. “Senta, mi scusi, cerchiamo di fare presto, perché ho già perso un volo e rischio di perdere anche il prossimo. Sono qui per il rimborso.” Mi spiega che posso scegliere tra cash, e un importo maggiore in biglietti Alitalia (non ricordo quanto, ma neppure lo ascolto, a quel punto). “No, no, mi dia i contanti,” rispondo io.
Inizia un estenuante esercizio di scrittura al computer. L’elegante cinquantenne deve compilare un modulo. Mi chiede qualche dato e poi si avvia in un solitario, letargico ticchettio a due dita, con frequente, abbondante ricorso all’uso delle frecce.
Sono dieci minuti infiniti, in cui continuo a chiedermi: “Ce la farò, non ce la farò? Lascio perdere il rimborso e corro all’imbarco? Ma quanto ci mette? Come mai non sa usare la tastiera? Perché continua a pigiare su quelle frecce? Ma cos’altro deve scrivere, ancora?”
Alla fine, con i soldi in mano, mi involo. Corro per i corridoi di Linate, arrivo ai metal detector e salto di brutto la lunga fila, tra sguardi ed espressioni di riprovazione. Proseguo la corsa fino al gate. Sono l’ultimo, stanno per chiudere. Ma ce l’ho fatta. Ho passato due ore schifose, sono teso, sudato e con un buco nello stomaco, ma ora mi posso rilassare. E tra tre ore sarò in vacanza con la mia famiglia.
Tra un attimo sono da voi
Il volo è quello che uno, a fine luglio, non si aspetta. Partenza in orario, arrivo in orario, tutto liscio come l’olio. Durante la sosta a Fiumicino riesco anche a sfamarmi. E all’arrivo a Catania sono di nuovo in forma.
Mentre attendo la consegna del bagaglio vedo mia moglie e i figli al di là della vetrata. Sono partiti in mattinata dall’estremo sud della Sicilia, in provincia di Ragusa, dove sono in vacanza, hanno passato un torrido pomeriggio a Catania, ingannando l’attesa per il mio arrivo, e ora sono lì, contenti di vedermi.
“Tra un attimo sono da voi”, dico loro. Ed è un azzardo.
Il nastro scorre. Arrivano i bagagli. Ma ogni tre valigie consegnate ce n’è una che si è persa (nel mar dei Sargassi del centro di smistamento di Fiumicino, come si saprà poi). Sono almeno una trentina i passeggeri del mio volo a ritrovarsi assiepati davanti a un bancone per denunciare il mancato arrivo del bagaglio, io tra loro.
Strepiti, lamentele, fila, attesa. I figli mi guardano un po’ smarriti dall’altra parte del vetro. E’ il mio turno, l’impiegata Alitalia mi dà un talloncino con il numero della pratica, un recapito telefonico per ottenere informazioni e mi chiede se al ritiro provvederò io o se preferisco che la consegna venga fatta da un loro corriere.
Io sono diretto in una zona relativamente isolata a 150 chilometri da lì. Quanto dovrò aspettare perché arrivi il corriere, con quella massa enorme di bagagli smarriti da riconsegnare? “No, no, ci penso io,” dico. “Bene, comunque non appena il suo bagaglio verrà ritrovato, la chiamiamo noi.” Lascio il mio numero di cellulare.
Colori a confronto
La mattina dopo, naturalmente, chiamo io. Il numero che mi hanno dato è quello del call center Alitalia. Comincio a chiamare verso le 10. Mi metto comodo su una sdraio in giardino, il sole caldo in cielo e il canale di Sicilia di fronte a me. Verso le 1215, cioè più di due ore dopo, e con Vodafone che mi avvisa che ho speso circa 25 euro di telefonata, riesco finalmente a parlare con qualcuno.
Mi passano l’ufficio bagagli smarriti di Alitalia a Catania. Un’impiegata risponde cortese, le comunico nome e numero di pratica, controlla al computer, mi chiede, a mo’ di conferma, se il mio bagaglio sia grigio. “No, è verde,” dico io, un po’ brusco dopo l’estenuante attesa al telefono. “Avevo denunciato lo smarrimento di una Samsonite verde, non grigia!”
L’impiegata mi chiede di attendere un altro istante. “Sì, c’è, il suo bagaglio è arrivato, può venire a prenderlo quando vuole.” Sarà vero? La breve conversazione mi ha lasciato interdetto. Ma l’unica verifica efficace, a questo punto, con la mia fiducia in Alitalia ai minimi termini, può solo essere l’andare a vedere di persona.
Caccia al tesoro
Parto subito. Ho fretta di lasciarmi questa storia alle spalle e di riavere i miei vestiti, un costume da bagno, gli aquiloni che i miei figli mi avevano chiesto di portare. Due ore dopo sono all’aeroporto di Catania.
Mi presento all’ufficio bagagli smarriti. Mi aspettavo l’ennesima folla, e invece non c’è nessuno, a parte una giovane impiegata di Alitalia, che se ne sta seduta, comprensibilmente annoiata, dietro al bancone.
Le do il mio tagliando, con la descrizione del bagaglio e il numero di pratica. Non lo guarda neppure. Mi indica invece tre punti della zona arrivi dove ci sono cumuli di bagagli accatastati. “Veda un po’ lì,” mi dice. “Ma mi conferma che la valigia è arrivata?” chiedo io, non del tutto sereno dopo la confusione tra Samsonite verde e grigia di poche ore prima.
“Non so, veda un po’,” mi ripete laconica. O non ha accesso al computer, o non lo sa usare, o non ha voglia di farlo. Sono stufo di questi modi e rispondo malamente. “Smuova il sedere, siete voi che dovete riconsegnarmi il bagaglio, non io che me lo devo andare a cercare vagando come un mentecatto per l’aeroporto!”
Con mia sorpresa non accenna nemmeno una reazione ai miei modi sgarbati. Non una parola. Si alza e va, dirigendosi lentamente verso il mucchio di bagagli più lontano. Altrettanto faccio io, più sollecito, in direzione opposta alla sua.
Le cataste più voluminose sono in una specie di magazzino alle spalle del bancone, e in una zona aperta adiacente. Lì mi dirigo. E lì, a tentoni, trovo la mia valigia. E’ fatta. Ventisei ore dopo il mio arrivo all’aeroporto di Linate mi sono finalmente liberato della sgradevole compagnia di Alitalia.
Un patrimonio di incompetenze
A mente fredda, e ricapitolando, è facile notare come il senso di delusione lasciatomi da questa esperienza sia frutto non dell’occasionale ed episodico disservizio, che può capitare ed essere accettato con filosofico distacco. Quel giovedì e venerdì praticamente tutti gli impiegati di Alitalia con cui ho avuto direttamente a che fare – e sono stati diversi – hanno dimostrato crassa incompetenza nell’esercizio di compiti semplici, banali, di routine.
A parlare con amici e conoscenti di questa storia, nel corso della vacanza, davanti a una tavolata imbandita e facendosi quattro amare risate, gli aneddoti si sono sprecati. Non c’è chi non abbia racconti simili.
Tornando dunque ai politici, sindacalisti e tromboni vari che parlano di “patrimoni di competenze” da tutelare, si può capire perché io pensi – immagino come la maggioranza degli italiani – che questi discorsi, strombazzati dai vari pulpiti mediatici, sono sfrontatezze difficili da sopportare.
Bandiere e mercati
Quella di Alitalia è una bandiera che può essere tranquillamente ammainata. Si lasci strada a qualcuno di migliore. Il paese ne guadagnerà. Se poi intende salvarsi, ci provi con le sue forze. Il verdetto sia quello del mercato. I governi e la politica, dopo aver sin troppo sbagliato, tolgano le mani dalla gestione delle aziende.
Passando dal caso particolare ai principi più generali, e dalla polemica spicciola a un discorso più propositivo, vorrei concludere citando un bel libro, fresco di stampa, la cui lettura ha allietato il mio rientro dalle ferie: Il liberismo è di sinistra, di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi.
Scrivono Alesina e Giavazzi:
“Il meccanismo che genera competizione, innovazione e miglioramento, quello che Joseph Schumpeter chiamava “distruzione creativa”, è l’entrata e uscita dal mercato di attività commerciali e aziende. Anche se può sembrare paradossale, ma solo a prima vista, il fallimento delle aziende, la distruzione creativa appunto, crea ricchezza.”
“Per esempio, da anni i governi fanno di tutto per evitare il fallimento di Alitalia: e invece proprio il fallimento di un’azienda in perdita, mal gestita e in preda a sindacati corporativi, introdurrebbe nuovo vigore nel mercato del trasporto aereo, aumentando l’occupazione e producendo un servizio migliore.”“In Italia il numero di fallimenti di imprese è tra i più bassi dei paesi Ocse. […] In Italia falliscono molte meno imprese che negli Stati Uniti: lo 0,4 per cento delle imprese, contro il 4 per cento negli Usa. Ma non perché in Italia le imprese siano più sane. […] Anziché lasciare fallire un’azienda che non riesce a stare più sul mercato, in Italia la si “salva”, anzi il governo la salva, come appunto accade da anni con Alitalia.”“Salvataggio” è la parola magica sia per i manager e i proprietari dell’impresa sia per i sindacati che difendono i posti di lavoro esistenti, anche se poco produttivi, a scapito di quelli più produttivi che si creerebbero se si lasciasse operare la concorrenza. Il “salvataggio” è il deus ex machina: sembra non costare nulla e rendere tutti felici. Invece costa, e caro, a contribuenti, consumatori e al paese nel suo complesso.”
“Molti studi, sia di economisti sia di esperti di gestione aziendale, dimostrano che le imprese più innovative sono le più giovani, che sostituiscono quelle in declino. E’ rarissimo che un’impresa “salvata” si rigeneri e diventi un grande innovatore.”
“Perché l’Italia riprenda a crescere occorre lasciar operare la “distruzione creativa” e difendere i lavoratori, non i posti di lavoro. Questo non solo aumenta l’efficienza ma riduce i privilegi dei lavoratori anziani a vantaggio dei giovani, quelli delle imprese già sul mercato e protette a vantaggio di potenziali nuovi entranti, premia la meritocrazia e non le rendite di posizione, insomma questo sì è di sinistra.”
Parole sacrosante. Questo sì sarebbe un bel programma economico per il nascituro Partito Democratico. Spero che Veltroni, e con lui molti altri, una scorsa al libro di Alesina e Giavazzi la diano. Per mollare quegli ancoraggi al passato che stanno affossando il paese e guardare finalmente avanti.