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Puntare sul dividend yield? Rischi e opportunità

“Puntare sulle cedole?” si chiede l’ultimo numero del settimanale Il Mondo in un articolo ambiziosamente pubblicato nella rubrica “Strategie” della sezione “Mercati”. Peccato che di strategie l’articolo non parli, limitandosi a presentare la nascita di un nuovo indice, il Global select dividend index della Dow Jones, e una lunga lista di prodotti – fondi ed Etf – tra i quali può scegliere chi in Italia voglia investire in strumenti azionari ad alto tasso di dividendo. Resta la domanda: perché puntare sui dividendi? E’ una strategia redditizia? Quali sono i rischi e quali le opportunità?

Cercherò di dare delle risposte semplici, ispirandomi a un maestro di chiarezza come Aswath Damodaran (nella foto) e al suo eccellente libro Investment Fables, Exposing the Myths of ‘Can’t Miss’ Investment Strategies.

Gli apparenti vantaggi

Chi propone una strategia basata sui dividend yield sottolinea di solito due apparenti vantaggi:

a) l’appeal derivante dalla fusione del potenziale di crescita delle azioni con flussi cedolari paragonabili, e a volte superiori, a quelli dei bond;

b) le qualità difensive: anche quando le azioni entrano in un bear market, si può contare sul dividendo; e poi i titoli che pagano i dividendi più alti sono spesso large cap in settori difensivi, che offrono maggiore stabilità nelle fasi di ribasso.

La teoria

Ma i dividendi rendono davvero un investimento azionario più attraente? Il punto, tra gli studiosi di finanza, è controverso.

Esiste una famosa teoria, chiamata teorema di Modigliani-Miller, secondo la quale non c’è motivo per cui un investitore dovrebbe dare importanza ai dividendi. Se il dividendo aumenta – argomentano Modigliani e Miller – diminuisce il tasso di crescita, e il rendimento totale resta invariato.

Ma altri non sono d’accordo, citando benefici empiricamente verificabili di una politica di alti dividendi. Una società che aumenta i dividendi segnala al mercato la sua fiducia nella crescita futura. E viene di solito premiata con un rialzo del prezzo del titolo.

Dividendi sufficientemente elevati limitano poi il rischio che il management diventi meno rispettoso degli interessi degli azionisti, imbarcandosi, ad esempio, in progetti d’investimento poco redditizi per fini di mera espansione e di prestigio personale.

Il responso della storia

Qual è l’evidenza storica? I titoli ad alto tasso di dividendo generano ritorni superiori?

Damodaran, nel suo libro, pubblica i risultati di uno studio di Ken French, che copre il periodo dal 1952 al 2001. Il grafico è quello che segue:


I titoli azionari sono stati ripartiti in decili, in base al dividend yield. E la performance è stata suddivisa in tre periodi, molto diversi tra loro.

Nel complesso si evidenzia un lieve vantaggio per i titoli ad alto tasso di dividendo. Ma l’andamento è erratico: prevalgono gli alti dividend yield dal 1952 al 1971, i bassi dividend yield dal 1971 al 1990, e di nuovo gli alti dividend yield dal 1991 al 2001.

Commenta Damodaran che forse i deludenti risultati nel ventennio 1971-1990 possono essere spiegati da un’analogia di comportamento con i bond, e cioè il ridotto appeal dei flussi cedolari in periodi di alta inflazione e tassi d’interesse crescenti.

Quanto alle supposte qualità difensive, un altro studio di French, questa volta dal 1927 al 2001, dimostra come i titoli ad alto dividend yield abbiano in realtà performato peggio di quelli a basso dividend yield durante i bear market azionari.

Un’applicazione famosa: i Dow Dogs

Un’applicazione semplice e famosa delle strategie basate sui tassi di dividendo sono i cosiddetti Dogs of the Dow, i dieci titoli del Dow Jones con il dividend yield più alto, da acquistare a inizio anno e tenere fino a fine anno, per essere rimpiazzati dai nuovi Dogs.

E’ una strategia che funziona? Secondo il suo inventore, sì (vedi dogsofthedow.com). Dal 1973 l’investimento nei dieci Dogs avrebbe reso il 17,7% annuo anziché l’11,9% dell’indice Dow Jones.

Ma questo confronto, nota Damodaran, è distorto. Intanto, i dieci Dogs tendono a essere titoli con un livello di rischio superiore alla media. E poi, per gran parte del periodo interessato, i dividendi sono stati tassati più dei capital gain, fatto di cui non si tiene conto nei risultati che vengono sbandierati, e che potrebbero essere, dunque, solo un miraggio.

Il problema della concentrazione

Investire in un numero ridotto di titoli scelti solo in base all’entità del dividend yield, come nel caso dei Dow Dogs, presenta inoltre un problema di concentrazione del portafoglio, di cui è meglio essere consapevoli.

Storicamente, le differenze settoriali nelle politiche di remunerazione degli azionisti sono state molto forti. Banche, utility e real estate hanno spesso pagato alti dividendi. Mentre il settore tecnologico ha pagato dividendi bassi o inesistenti.

Si tratta di diversità che hanno in parte a che fare con la tradizione, ma che più spesso si spiegano con motivi fondamentali.

Nei settori più ciclici, dove gli utili sono volatili, o in quelli con il maggiore potenziale di crescita, dove però per sfruttare le opportunità bisogna reinvestire il più possibile gli utili, le società sono restie a pagare dividendi elevati. Al contrario, è nei settori più stabili e con minore potenziale di crescita che si trovano di solito le società con i più alti tassi di dividendo.

Tre fattori di rischio

Ma i fattori di rischio da cui l’investitore in titoli azionari a cedola elevata si deve davvero guardare sono soprattutto tre: dividendi non sostenibili, bassa crescita e tasse. Vediamoli in dettaglio.

a) Dividendi non sostenibili

La cedola di un bond è fissa, per contratto, fino alla scadenza. Ma per i dividendi non è così. Una società può decidere, se vuole, di ridurli o persino eliminarli.

Non basta dunque che un dividendo si presenti come attraente. Un investitore deve chiedersi se sia sostenibile, e cioè se la società in questione sarà in grado di pagare il dividendo un anno dopo l’altro, e farlo crescere.

Il modo più semplice per stimare la sostenibilità è di confrontare i dividendi pagati con gli utili del periodo, ossia calcolare il payout ratio. Un payout superiore al 100% significa che una società paga dividendi che eccedono gli utili, riducendo così il valore netto dei suoi asset e, di conseguenza, la capacità di crescere in futuro.

Una regola spesso seguita dagli investitori professionali è di stabilire una soglia limite per il payout ratio, ad esempio di due/terzi o, al massimo, dell’80%.

Questo metodo per calcolare la sostenibilità dei dividendi è il più semplice, ma non è il migliore.

Gli utili sono infatti una misura contabile che può essere diversa, e anche molto, dall’effettiva generazione di cassa da cui poi dipende la possibilità di corrispondere dividendi agli azionisti. Come molti investitori hanno scoperto in occasione dei ripetuti scandali finanziari degli ultimi anni, gli utili sono un’opinione mentre solo i flussi di cassa (cash flow) sono un fatto.

La vera misura della sostenibilità dei dividendi si ottiene allora mettendoli in relazione al flusso di cassa che residua dopo che una società ha pagato gli interessi ai creditori e soddisfatto le necessità di investimento legate al capitale fisso e al capitale operativo (working capital).

E’ quello che in gergo si chiama equity free cash flow (EFCF), e che è dato da utile netto + svalutazioni e ammortamenti – spese nette in conto capitale – incremento del capitale operativo netto.

b) Bassa crescita

Una società che aumenta i dividendi distribuiti agli azionisti ha meno risorse da reinvestire nelle sue attività. Nel lungo periodo, è inevitabile che ciò si traduca in un più basso tasso di crescita degli utili.

Della crescita attesa degli utili è evidente che l’investitore in azioni si debba preoccupare: è da qui che vengono le possibilità di apprezzamento nel tempo del valore di ogni titolo azionario.

Chi punta su una strategia basata su alti tassi di dividendo deve allora sincerarsi che la crescita non ne risulti troppo sacrificata e che il tradeoff tra dividendi e crescita sia attraente.

Come fa una società che ha payout ratio elevati (che cioè distribuisce ogni anno agli azionisti una percentuale elevata dei suoi utili) a mantenere tassi di crescita interessanti? Grazie alla qualità dei suoi investimenti, misurata dal rendimento dei mezzi propri o return on equity (ROE).

La formula che riassume questo nesso è la seguente:

Tasso di crescita degli utili di lungo periodo = (1 – Payout Ratio) (Return on Equity).

Facciamo l’esempio di una società che distribuisca la metà dei suoi utili, e abbia dunque un payout ratio del 50% (0,5), e un ROE del 20% (0,2). Il tasso atteso di crescita degli utili sarà (1-0,5)(0,2) = 0,1 ossia 10%.

c) Tasse

L’ultimo fattore di rischio sono le tasse. Mentre le tasse sui capital gain posso essere differite, evitando semplicemente di vendere gli asset che si sono apprezzati, le tasse sui dividendi devono essere immediatamente pagate, facendo lievitare nel tempo l’ammontare di profitti lordi che un investitore vede sfumare in imposte.

Inoltre, in alcuni paesi (è stato il caso anche degli Usa fino al 2003) le aliquote applicate ai dividendi sono superiori a quelle sui capital gain. Meglio, insomma, controllare per tempo.

In conclusione

La conclusione di questa analisi è che l’investitore attratto da una strategia basata sugli alti tassi di dividendo, per avere successo, non si può fermare a considerare solo l’entità della cedola. Potrebbe ritrovarsi con un paniere di titoli molto rischiosi, concentrati sotto il profilo settoriale, a crescita bassa o negativa, con dividendi insostenibili.

Dovrà invece applicare al processo di selezione dei titoli almeno tre criteri congiunti: dividend yield elevato (uguale o superiore a quello dei bond a lungo termine), payout ratio non eccessivo (non superiore a 2/3), e apprezzabile crescita degli utili nel lungo periodo (a tassi almeno pari a quelli del Pil nominale, e cioè dell’economia nel suo complesso). Dovrà infine tenere d’occhio le tasse e mirare a costruire un portafoglio non troppo sbilanciato a livello settoriale.

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